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mercoledì 29 ottobre 2014

Piccole storie di ebola, umanità, fame e amore.

Oggi ero di ritorno da uno dei miei soliti pellegrinaggi al santuario dell'università, come di consueto sull'autobus che ogni mese che passa, inspiegabilmente, costa un euro in più e ha i sedili sempre un po' più sporchi del mese prima e sempre più fruibili del mese a venire. Ero in un limbo molle tra la sonnolenza, la fame, la pipì che mi scappava e il discorso dal tono piuttosto marcato di una matricola di lettere reduce dalla seconda lezione di letterature comparate e con la spasmodica e manifesta convinzione barra volontà di lavorare, in futuro, nel mondo del giornalismo e/o dell'editoria. Già il tedio di rivedermi riflessa in una così aperta manifestazione d'ingenuo sogno giovanile, m'aveva corrosa al punto da ripetere in loop un pezzo di Shakira - finito in download per qualche strana goliardica serata di qualche esame superato fa - poi le vocali aperte e amplificate della signorina matricola m'hanno dato la mazzata finale con l'esclamazione seguente: <cioè ma Frida Kahlo in fin dei conti che ha fatto per diventare famosa? Per il monociglio? E' diventata famosa per un appuntamento saltato dall'estetista? Ma dai!> La testualità delle parole ha polverizzato ogni micro-agglomerato di tolleranza nel mio corpo, lasciando spazio solo ai miei super benedetti Wayfarer neri e una tendina parasole a coprire la schifezza del mondo in formato autobus.
All'aeroporto sale un ragazzo alto, molto alto, e di colore. Parla al cellulare nervosamente e occupa il posto davanti al mio. Non so se i miei compagni di viaggio abbiano pensato all'ebola, ma comunque nessuno l'ha detto. Io ci ho pensato, e ho pensato che tanto all'ospedale di Agrigento basta una febbre alta o un'appendicite a farti morire, quindi ebola o no, siamo messi già male così. Dicevo, il ragazzo parla ad alta voce con un amico che l'aspettava in un paesino poco distante da Agrigento. Chiede a dei passeggeri se per caso il nostro autobus vada anche in quel paesino, in un italiano che verosimilmente è molto più comprensibile di quello di taluni favaresi con uno stuolo di interviste da far invidia a Michele Misseri all'uscita del Tribunale del riesame. Si distende, mi chiede scusa per aver abbassato troppo il sedile e io penso a quella volta che alla gita del terzo liceo c'eravamo pure portati dietro i cuscini dagli hotel per dormire sull'autobus quindi vai sciallo fratello, e s'addormenta. Mi pare che soffra, mi chiedo da dove viene e dove va, cosa lo aspetti al paesino nel quale è diretto, quanto ci resterà e se ha una casa. Le ho pensate tutte, sulla sua vita, che è la vita di altre migliaia di persone che arrivano come lui, così, scappando dalle atrocità di un futuro negato. Come il nostro, senza dubbio, solo con modalità un poco poco più brutali. Alla fermata successiva sale una coppia di due ragazzi alti molto alti, anche loro di colore, anche loro discutono animatamente. Si siedono nei posti accanto al ragazzo, ma parlano lingue diverse, lo capisco dal fatto che il ragazzo, nel chiedere loro un'informazione, gli parla in italiano e loro rispondono nello stesso modo. Chiede se sanno quanto costi il biglietto dell'autobus per andare a quel paese - qualora la vita non ce li abbia già mandati abbastanza, tutti quanti - e uno dei due risponde: due euro. Ah, due euro? E abbassa il viso, scuotendo leggermente la testa da un lato e dall'altro. E' troppo, troppo. Allora uno dei due ragazzi si guarda nel palmo della mano, dove tiene una manciata di monetine, le conta fino ad arrivare a due euro. Tieni, prendi!, gli fa. Io li guardo dalle retrovie, loro non mi vedono, ma io per fortuna assisto ad una delle scene più belle che, ad oggi, la vita m'abbia offerto, recando con se altrettanta lezione. Ho imparato che il concetto di fratellanza includa il non conoscersi per niente eppure considerarsi membri della stessa grande umanità, e che quando ci si trova tutti insieme un gran bel periodo di merda bisognerebbe dividere la propria piccola fame con la piccola fame degli altri per cercare di annientarla. Mi sono chiesta se i nostri nonni che emigravano in Germania, quando incontravano un italiano in difficoltà lo aiutavano, gli pagavano il biglietto per un mezzo pubblico, ed io scommetto che mio nonno lo faceva, non perchè era lui, ma perchè la loro generazione era più genuinamente vicina al concetto di umanità fraterna che sa che la fame è uguale per tutti. Oggi invece, da queste parti, ci si deve guardare anche dei propri fratelli di sangue, chè piuttosto che condividere si scannano, non attuando altro che la gloriosa regola del futticumpagnu. Se ricominciassimo a raccontare ciò che di bello vediamo fare alle persone, la paura di stare tutti vicini in questo mondo così piccolo non esisterebbe. E non esisterebbero colori, nomi, numeri, solo anime.
Vorrei ringraziare, anche se loro non lo sapranno mai, questi tre ragazzi che oggi viaggiavano verso Agrigento. E mentre Agrigento pensava all'ebola, loro salvavano l'umanità.