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venerdì 27 gennaio 2017

Giada: tra il mare e la campagna, i sapori di una Sicilia da riscoprire

Quando Stefano mi ha invitata a venire a vedere il suo nuovo posto di lavoro, mi ha detto: poi vedrai, quant'è bello.

Ero in aeroporto, al gate, in attesa di volare dai miei. Lui mi ha chiamata e ci siamo salutati con la promessa che, al mio ritorno, il ristorante Giada sarebbe stata la prima tappa. Così ieri, sono andata a trovarli, a Cattolica Eraclea  (vi ho inserito direttamente la mappa, così potete dare un'occhiata su dove si trovi e come raggiungere il posto facilmente, in una ventina di minuti da Agrigento) e la sorpresa è stata grande: non avevo minimamente idea che avrei trovato un vero e proprio mini-villaggio del cibo e del relax, ma non solo. Accolta dal mio amico, lo chef Stefano Vitello, ho subito conosciuto Anna, la proprietaria e creatrice di Giada (in tutti i sensi, capirete perché) insieme al marito Giuseppe Scalia, e a Francesco Di Capo, già loro collaboratore, socio e amico fidato (e pure testimone di nozze, per dire).
Dopo un caffè rinforzante nell'elegante zona bar, Anna - da perfetta padrona di casa - mi presenta, con grande orgoglio, le diverse aree di Giada: il ristorante, la pizzeria, la piscina (coperta e riscaldata), l'area camper attrezzata, la zona bed and breakfast composta da casette indipendenti all'interno della tenuta e - meraviglia delle meraviglie - una distesa infinita di verde. Un campo a perdita d'occhio, tutto puntellato di gialli e arancioni, di tutte le tonalità dell'agrume siciliano quando cresce rigoglioso e libero. La pace. Io già pensavo al limoncello buono, mica quello del supermercato, quello che si beve in veranda in estate la sera, ghiacciato, e ci manda a dormire con pochi pensieri e troppi sogni.

Anna è brillante e intraprendente, mi racconta della loro pasticceria in paese, a Cattolica Eraclea, all'amore che Giuseppe mette nel suo lavoro quotidianamente, e al coraggio che li ha spinti a rilevare la struttura di Giada e ad inaugurarla lo scorso 21 dicembre, dopo un restyling di colori e arredamenti della sala e delle casette b&b.
Era da tanto che gli amici ci chiedevano di prendere in mano questo posto e farlo ripartire, ma non si pensava di farlo davvero. Poi un giorno ci siamo decisi, ed eccoci qui.
Prosciutto crudo di agnello prodotto da Giada
Ed è proprio mentre mi racconta la storia che ha portato Giuseppe e il suo socio Francesco ad intraprendere quest'avventura, che arriva lei: tutina rossa, capelli biondi, una trousse, quattro anni e un coniglietto bianco di peluche. Giada, quella vera, la loro bambina, nonché l'ispirazione per il nome del ristorante (che solo ristorante non è). La giovane mamma mi racconta - con gli occhi adesso illuminati dal sorriso della figlia - che hanno voluto dedicare proprio a lei il luogo, e che l'hanno chiamata così in riferimento alla pietra verde di giada, i cui benefici sono molteplici, ma uno su tutti è il benessere interiore, la serenità, la forza emozionale. Così, seduti nel salottino all'ingresso della sala ristorante, poco lontano dalle cucine dalle quali esce un profumo caldo e speziato, Anna mi racconta di Giada (o delle due Giade della sua vita, se vogliamo) e lo chef mi racconta la mission culinaria del ristorante.

Le vie dei formaggi da Giada
Stefano è un tipo energico, un lavoratore duro e puro, di quelli che non li fermi neppure con la stanchezza. Trovandoci in un punto di snodo tra il mare e la campagna, la cucina non deve fare lunghi viaggi: il chilometro zero è il padrone dei sapori di Giada, l'auto-produzione dei formaggi e dei salumi, i percorsi di degustazione in abbinamento ai vini - alcuni provenienti da cantine locali - e a conserve preparate sapientemente nelle cucine di Giada. Il menù è ricco e godurioso, con un occhio alle migliori carni argentine ma con amore e rispetto per il prodotto locale, frutto di pascoli vicini e nutrimenti sani e conosciuti. L'obiettivo della cucina di Giada è quello di riportare i palati a gustare i sapori di una volta, cucinati con sentimento moderno, creando circuiti di turismo esperienziale nelle splendide tenute del ristorante e b&b. Coinvolgere gli ospiti nei processi di panificazione (sì, produce anche il pane e la pasta Stefano, mica si ferma) e di produzione del formaggio, ad esempio, significa raccontare quella nostra Sicilia viva e fervente nella memoria, residuo reale solo di alcuni sobborghi, in cui i biscotti sanno ancora di vin cotto e dalle cucine delle anziane sedute a chiacchierare ai bordi della strada con le dirimpettaie, arrivano fragranti le melanzane fritte per la parmigiana, i sughi saporiti della domenica mattina, le tume perse grattugiate e quella ricotta zuccherata che, per magia, si trasforma in dolce sopraffino tra le croste del cannolo. Questo è il sottobosco culturale gastronomico del ristorante Giada, che parla un linguaggio semplice, ma con la bocca piena di sapore e genuinità.
Cosa che pare sia stata recepita alla grande dagli ospiti, che hanno fatto registrare numeri da urlo durante le festività natalizie e ci si organizza adesso a quelli della cena di San Valentino, mettendo in moto - di fatto - una macchina che offre lavoro a decine di giovani del posto.

Voglio riportare la gente a mangiare sano e gustoso, cucinando sempre nel rispetto della materia prima e del nome di questo ristorante, che sogno di trasformare in un brand che racconti la Sicilia al resto del mondo.
Così mi saluta lo chef Stefano Vitello, stringendomi la mano sorridente e frettoloso (chè deve tornare a lavorare, mica come me), mentre saluto l'aria pulita, il verde infiammato da un tramonto di quelli che solo da noi, insieme ad Anna la quale, fra le altre cose, è anche web designer e ha creato l'albero divenuto simbolo del sogno di famiglia, e Giada (col suo fedele coniglietto bianco al seguito). Una famiglia giovane come tante, che ha fatto del ritorno alla terra, in questo caso intesa come luogo incontaminato e felice, il suo lavoro: portatore di gusti veri e pieni sulle tavole delicatamente rivestite, e di esperienze culinarie saporite e ghiotte. Le vie dei formaggi, le carni tenere, la verdura fresca, le belle domeniche di sole, con l'odore del mare di Minoa che arriva con la prossima folata di vento. Ed un tramonto rosso fuoco, che a parole non posso dirvi: tutto questo è il ristorante Giada.

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martedì 3 gennaio 2017

Malerba, storia di una rinascita.

Sono passati appena venti minuti da quando siamo venuti fuori dalla Sala Marylin del cinema Mezzano di Porto Empedocle. Venti minuti: il tempo di rientrare a casa nostra, accendere il pc, riempire un calice di buon rosso e mettermi a scrivere.
Siamo andati a vedere, finalmente, ERO MALERBA: docu-film di Toni Trupia, sulla vita di Giuseppe Grassonelli, sapientemente raccontato da Carmelo Sardo. Avevo letto il libro di Sardo nel 2014, in estate, a poche settimane dall'uscita nelle librerie. Immaginavo ciò che avrei visto e mi aspettavo ciò che poi effettivamente ho trovato durante la visione del film; anche se in misura sicuramente maggiore. La pellicola mi ha stupito, con un messaggio schietto e fortissimo, che mi sono sempre portata dentro e col quale ho avvolto timidamente i miei pensieri sulla mafia: i criminali sono, inevitabilmente e al contempo, vittime dei loro stessi crimini. O lo sono a monte, e agiscono di conseguenza per proteggersi, o lo sono alla fine, quando pagano debitamente per ciò che hanno commesso. Giuseppe Grassonelli lo è in entrambi in casi.
La storia dei Grassonelli non è diversa da quella di molte altre famiglie mafiose durante gli anni della guerra: stessi morti, stesso dolore, stessa faida, stessi obiettivi. L'elemento di rottura però, nella vita di Giuseppe è rappresentato dalla cultura (non mafiosa) acquisita nel tempo della reclusione, durante la quale, un ampio e positivo processo di consapevolezza, ha condotto quello che è a tutti gli effetti un ergastolano, a raccontarsi. Dalla penna e dagli occhi di Carmelo Sardo - nel film disegnato come un riflessivo e silenzioso Bob Dylan - è stato tracciato un ritratto carico di coscienza e dignità, seguito poi fedelmente dal regista di Ero Malerba, Toni Trupia.
Conoscendo Toni (non faccio mistero del mio affetto professionale e non solo, per lui e la moglie Angelisa Castronovo, responsabile della produzione del film) ho riconosciuto la sua firma di uomo, prima ancora che di regista: il suo entrare leggero, in punta di piedi, nelle vite che racconta. Una dolcezza del tutto umana, che troppo spesso cessa di esistere nei racconti crudeli e retorici che si fanno degli adepti alla criminalità organizzata. Trupia ha saputo tenersi al margine del foglio, proiettando - prima di tutto - il dramma di una famiglia, e la miseria infinita nel cuore di una madre che può stringere la mano al figlio solo tramite una cornetta del telefono, una volta a settimana. Le luci filtrate dalle grate, uno sguardo sereno a tradire una condizione di vita svuotata d'esistenza, una narrazione precisa - al limite del filosofico - in una sala del carcere, in sottofondo il vociare (immagino) di altri reclusi o dei funzionari della struttura. Grassonelli strappa l'ideale del condannato incazzato con lo Stato facendone coriandoli, e lo fa senza per questo poter essere considerato - passatemi il termine - un paraculo in cerca di redenzione o sconti: è schietto, e ci presenta una storia in cui la guerra non è dei buoni contro i cattivi, come nei libri di storia, ma di tutti contro tutti. Vince chi resta vivo, chi muore perde. Come chi prova a riportare in vita i morti, vendicandoli, con altri morti. Giuseppe Grassonelli, nel lavoro di Sardo - archeologo preciso - non fa cronaca, fa storia e ci trascina dentro il suo stesso sentire, nelle sue viscere. Toni Trupia, col supporto di una fotografia candida, a tratti romantica, urla con la forza delle immagini questo valore equivalente, di un'umanità dal passato crudele: non è meno uomo, un uomo che ha peccato. E non ho vergogna a dirvi che me lo sono chiesta, più di una volta: al posto suo, avrei fatto lo stesso? Se avessero sterminato la mia famiglia, il mio cuore cosa m'avrebbe detto di fare?
Il capovolgimento del punto di vista è la forza di Ero Malerba, il perdono del criminale, messo sullo stesso piano della gente comune e senziente, nel suo presente consapevole. Con grande onestà intellettuale e fedeltà storica, spogliata dal preconcetto e dall'ingiuria, Toni Trupia - che ci conferma, al suo secondo lavoro, un talento cinematografico indiscusso - ha acceso una luce sul lato della medaglia troppo svalutato negli anni, regalando un meraviglioso riscatto alle vittime: chi ha fatto e chi ha subito, hanno dentro lo stesso dolore. La condanna di una vita, senza vita.
Andate a vederlo, fatevi 'sto favore.

Dell'inizio dell'anno e fantasie sul futuro

La tavola è rimasta come un campo di battaglia: briciole, frammenti, detriti e piatti sporchi.
L'odore dei soffritti ancora impregna le pareti del nostro soggiorno - adiacente alla cucina - e la vita, la vita sembra essere un'enorme ascella sudata.

Questo è ciò che resta delle feste, le prime passate in casa nostra.
E alla mezzanotte, ci siamo potuti finalmente dire auguri, buon anno, senza dover scappare dietro un bancone a riempire chupiti di vodka alla menta, per figlie di mamma pronte al collasso. Il veglione, la notte, le gonne corte, le ambulanze, il freddo, le corse e le dita in gola, il cornetto caldo la mattina e il mascara sbavato, hanno ceduto il posto a due sane ore d'amore in caldo appartamento ammobiliato in centro città: casa nostra. Una bottiglia di amaro Averna per spingere la salsiccia e gli sfincioni fino all'ultima tappa del viaggio, e uno spumante finito a metà, tra uno scopone scientifico e una cucchiaiata di lenticchie. Di buon auspicio, dicono.

Sono disoccupata.
O meglio non ho attualmente un'occupazione retribuita, ma di progetti per le mani e per la testa ne ho fin troppi, alla ricerca di un finanziatore. Ma siamo solo al tre di gennaio, ed è la mia prima vacanza forzata da cinque anni a questa parte. Sto sperimentando la poesia immensa di fare colazione seduta, di leggere le mail con calma, di pettinarmi per bene e non costringere la chioma ad uno sbrigativo quanto burino chignon mattutino. Mi sto rilassando.
E rilassandomi scrivo, o scriverei, non so ancora di cosa precisamente ma sento che l'idea buona è dietro la porta: sta citofonando. Sarà questo l'anno in cui troverò il mio posto nel mondo? Non lo so.
Nel frattempo, riprendo da dove avevo interrotto: la specialistica. E mi pare un buon inizio.

Se sei un trentenne, o un quasi trentenne, da queste parti (Agrigento, Sicilia), dormi sotto braccio al senso di colpa e alla voglia impellente di svegliarti altrove, fosse anche la fredda e bianca Lapponia, pur che sia un posto in cui sogno equivalga a possibilità. Da queste parti, i capelli bianchi sono ancora una prerogativa, una costante della gavetta; come dire: il primo contratto e la prima pensione arrivano lo stesso mese, generalmente subito dopo il sessantesimo compleanno. 
E allora ti guardi le mani raggrinzite, la pelle tirata fino ai bordi delle unghie e macchiata di chiazze brune, afferri lo smartphone e inforchi le lenti per abbattere, per qualche minuto, la presbiopia galoppante. Apri Facebook e cerchi di ricordare i nomi dei tuoi clienti, digrigni i denti, il ponte traballa dolcemente, e scorgi fra le cartelle del desktop un documento dal nome: piano editoriale. Vuoi seguirlo, studiare, schedulare ma il pannolone - ormai zuppo di urine e umori di vario genere e natura - ti pesa sulle cosce molesto, irritando la zona inguinale e impastandosi con il Bepanthenol. Era bello quando ci coprivi solo i tatuaggi. E un po' la vita di appare amara, ti chiedi se forse tuo padre non aveva ragione a consigliarti giurisprudenza.
Guardi la foto sul mobile: tu e il tuo compagno state ancora convivendo, e nel frattempo la menopausa e l'andropausa stanno bevendo il té sul divano del salotto, spogliate di ogni libido e da ogni compassionevole tentativo di erezione da parte degli organi, ormai avvizziti.

Come immagino la mia maturità. Un tempo totalmente indefinito, protagonisti la crusca e un iPhone 5s scovato in un negozio di chincaglierie vintage, un catetere di passioni sciolte e di progetti chiusi con lo strappo di un Tena Lady discreto. Tutto questo, solo perché scelgo follemente di continuare a vivere qui, nella punta consumata di uno stivale fuori moda.
E quando i nipoti mi chiederanno la paghetta, avrò così tanto interiorizzato la famosa gavetta che fa curriculum, che li abbraccerò, appoggerò le braccia sui loro fianchi adiposi farciti di iPad Plus Pro Mille, e gli dirò: prima imposta il target e la location, poi ti accetto l'inserzione. Per le marchette brandizzate parlate col nonno. Lui faceva i chupiti alla menta.

La dura vita di una blogger in terra di Sicilia.