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venerdì 22 gennaio 2016

Family day a chi?

Stamattina sono andata alle Poste a ritirare un pacco.
Un mese fa Gabriele m'ha regalato una stampa su tela di un'opera di Banksy, il corriere è arrivato due volte a casa nostra e non c'ha mai trovato, logicamente, presi come siamo dai nostri lavori.

L'impiegata allo sportello mi ha chiesto: il destinatario scritto qui sul pacco, cosa le viene? Ed io, anche questa volta, proprio non ci sono riuscita a definire Gabriele per ciò che è, il mio fidanzato, così ho mentito, spudoratamente ma non troppo: è mio marito. 
E nel dirlo ho provato un libidinoso compiacimento, misto al senso di colpa dato dall'aver coinvolto il mio compagno in un nostro matrimonio, mai avvenuto, e a sua insaputa.

Oggi mentre traducevo Virgilio per il mio ultimo esame - sì, ancora, ancora e ancora - sono inciampata nel termine iugalis. Ho aperto il mattone rosso, lo stesso che uso da tredici anni a questa parte, e col dito umido da una leggera leccata, ho sfogliato tutto l'alfabeto fino alla i, e alla parola in questione, accanto alla quale ho letto: stretto dal giogo, coniugale, sposo, sposa, matrimoniale.
Stretto dal giogo. Ecco com'era già visto in antichità il matrimonio: un contratto che, in un modo o nell'altro, ti fotte. E dimezza la tua libertà, stringendoti in una costrizione in deficit d'ossigeno.
Noi però, le nostre libertà le abbiamo frantumate e mixate in un succoso equilibrio di parti e vite, ognuno con la sua, per poi ritornare la sera sotto lo stesso piumone, senza desiderare altro.

Non c'è stato un momento preciso in cui ci siamo detti: andiamo a vivere insieme?
L'abbiamo fatto, desiderandolo, come se fosse la cosa più ovvia. Un giorno Gabriele è tornato a casa dei suoi e m'ha detto: ho visto una casa per noi due, è bellissima, è quella casa nostra.
E un mese dopo eravamo nello studio dell'amministratore a firmare il contratto di casa nostra. La mattina della firma del contratto sono tornata a casa dei miei genitori e ho raccolto un po' di roba che è rimasta nel bagagliaio fino al giorno del trasloco, le mie cose. Poi ho comprato tre rose e le ho portate a mia nonna, nel posto dove i nonni riposano - si spera - in pace. Ho guardato la sua foto e le ho detto: senti nò, oggi firmo, prendo casa, vado a convivere...come te lo devo dire...se non approvi, mandami un segno. Fai tu, ciao.
Alle cinque del pomeriggio, mia nonna non aveva ancora manifestato la sua perplessità nei confronti della scelta controcorrente che avevo preso, dunque era il caso di firmare in tutta serenità: dal Paradiso delle nonne amorose qualcuno mi stava schiaffando il cinque. Il mio nome si incastrava perfettamente alla firma di Gabriele, sopra la mia, su quattro fogli che ci assicuravano il tetto per i prossimi quattro anni. Tutte e due erano malferme: le mani ci tremavano, e una volta fuori dal portone ci siamo guardati sorridendo. L'abbiamo fatto, abbiamo casa nostra, adesso è come se fossimo sposati amore!, e non si sbagliava. Una sera, a cena fuori - credo il giorno dopo la firma del contratto - un suo amico se ne uscì col clichè della prova. 
Ma sì, fate bene ad andare a convivere, alla fine bisogna provare se uno poi va d'accordo...bisogna capirlo prima del matrimonio, perchè dopo sono guai.

Noi però, neanche per un attimo, abbiamo pensato di provarci o testarci o vedere se ci piacevamo anche al di fuori delle nostre rispettive abitazioni. Volevamo solo essere una famiglia, lui ed io. Senza prove, solo sicurezze. Un mese dopo è arrivato il nostro nome sul campanello e dietro la porta, e quando buco una gomma, nelle corse fra un lavoro e un altro, mi fermo dal gommista e dico: salve sono la moglie di Gabriele Baio, mi ha mandato qui perchè lei è il migliore.
Di solito non è vero, il migliore è il primo che mi capita a tiro, aperto, ad orari improbabili e sempre nel week-end, obviously.
Mica dico la fidanzata o la ragazza o la compagna. E no, non è servita una casa in verità a farci sentire un nucleo familiare; lo eravamo già. Quando i nostri stipendi hanno iniziato a fondersi per un progetto comune, quando chi si alza prima fa il caffè, quando alle otto di sera m'infilo nell'ultimo supermercato aperto per comprare una bottiglia di vino buono e le patatine per quando torni la notte, e io sono ancora al pc a scrivere articoli o a sbobinare interviste, e crolliamo insieme sul divano del soggiorno, col pigiama di flanella che da tempo non mi preoccupo più se distrugga la passione o no, come si legge negli inserti dedicati al sesso dentro ai rotocalchi. A noi la passione non l'ha mai distrutta nessuno: né un pigiama di flanella, né un paio di calzettoni di lana e neanche le occhiaie viola. I peli sulle gambe il giorno prima della ceretta dall'estetista sì però, quelli si. Perchè alla base di questa famiglia a due, che abbiamo creato a prescindere dai vincoli, noi abbiamo l'amore. Un amore folle che forse, sulla carta, non ci dà diritto a niente, ma che ci completa e perfeziona ad ogni scalino. Poi Dio, lui lo sa, e credo sia tanto felice di questa genuina forma d'appartenenza e protezione reciproca, talvolta viscerale, e non credo si formalizzi per una firma dentro una Chiesa - che prima o poi, comunque, metteremo - ecco, io credo che a lui dell'amore interessi solo l'amore. Non credo gli importi di che forma, colore, sesso o natura sia: gl'importa dell'amore, essendone lui stesso il creatore. Se uno ci vuole credere, eh.

La famiglia è quel posto bellissimo in cui uno può essere se stesso. per davvero, con le puzzette nel corridoio, col letto lasciato sfatto per ventiquattrore, con i pianti a fiumi guardando C'è posta per te, coi leggins per la cyclette con un buco sulla coscia, con la macchina piena di scontrini e ticket del parcheggio, con la voglia di cantare da stonati e sapere che nessuno potrà cambiare opinione sul nostro conto in maniera permanente. E' un nucleo con delle dinamiche talmente estranee alla burocrazia, da farla sembrare totalmente inutile - per quanto necessaria - rispetto alla radice sentimentale che la genera e tiene in vita. Dovrebbe essere un assunto generale chiaro per tutti, insieme alla possibilità che ogni nucleo familiare debba poter generare prole, direttamente o indirettamente, continuare e condividere l'amore che nasce nella coppia, ma che sente il bisogno di diramarsi, moltiplicarsi, espandersi. A prescindere dal sesso degli elementi della coppia. La famiglia è un lavoro così complesso e desiderato, che a nessuno si dovrebbe poter negare la gioia di raccoglierne i frutti nel tempo.
Nel mio cuore, quando dico che sono tua moglie, io non dico una bugia. Se togliamo al mondo il piacere di amarsi, scambiandolo con le leggi e i decreti e gli emendamenti e le analisi di mercato e i riflessi psicologici e le chilometriche pratiche d'adozione e tanta altra carta da ardere e parole da spegnere, lo priveremo della sua forza primordiale, la più vera, la più viva: l'amore.

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