E tu sei il numero:

martedì 25 novembre 2014

L'amore è uomo, la forza è donna.

Negli anni passati, quando ho scritto di quest'argomento, delicato e fragile come una bolla di sapone, sono spesso incappata in errori, di cui oggi mi pento.
La mia crociata è sempre stata dettata da principi che, in parte, ancora adesso abbraccio ma modificati da un senso profondo di vicinanza alle donne che subiscono violenza da parte degli uomini. Forse perchè mi sento più donna anch'io, ed è mio dovere non fermarmi più allo strato semplicistico che mi portava a dire: ti picchia? ribellati!, ti tratta male? fai qualcosa.
Lasciando così ricadere la responsabilità sulle donne stesse, di continuare a sottacere i delitti, invece di parlarne e urlarli a gran voce.
Adesso, che so cos'è l'amore, so che non è così semplice.

L'amore è un sentimento sfaccettato e con effetti infiniti sulla psiche e sul carattere delle persone: lo modifica, lo adatta, lo rende flessibile e ti fa sviluppare quell'istinto di protezione infinito che non vede nulla. Se ami il tuo partner, lo difenderai anche se ti fa del male, giustificandone la condotta violenta, sperando che cambi, vedendo inesistenti segnali di cambiamento, fino a giungere all'auto-convinzione che ma sì, non è così grave, sono sicura che non ricapiterà. E poi ricapita sempre.

Quando avevo quattro anni circa, venne ad abitare sul mio pianerottolo una coppia di sposi giovani. Bussarono alla nostra porta per presentarsi. Ricordo solo quanto lei fosse fresca e bella, di lui mi rimane solo il ricordo di un energumeno, credo amplificato dalle mie dimensioni del tempo e dall'alone di disagio che lasciò nel mio cuore di bambina. Tra gli scambi di sale ch'era finito, le cipolle e qualche biscotto fatto in casa, passati da balcone a balcone, con la coppia credo nacque quella specie di amicizia tra inquilini dello stesso palazzo, cortese ma non confidenziale.
La pace finì presto, e le urla non tardarono ad arrivare. Ogni giorno, dopo pranzo, una lite. Quando  papà tornava dal lavoro, pranzavamo e poi guardavamo la tv sul divano. C'era un programma di Alda D'Eusanio in cui la gente litigava, mamme e figli, fidanzati, migliori amici, trombamici, coppie di fatto, e poi andavano a fare pace da lei. Era il nostro rituale: bastoncini Findus e poi sul divano a guardare la D'Eusanio. Poi un giorno la routine cominciò ad essere interrotta dalle loro urla, sempre più forti, sempre più orribili. Ricordo che fu allora che sperimentai per la prima volta il mal di pancia della paura, quello che ti fa sentire il pericolo e ti fa attaccare alla gamba della mamma. Le pareti sottili che mi separavano dalla coppia, ahimè, mi facevano sentire ogni parola. Ogni schifo di parola. Finchè un giorno lei, non venne a bussare alla nostra porta, Aveva il pallore della morte. E tremava, stremata dall'ennesima furibonda guerra. Credo di averle fatto qualche carezza, o avrei tanto desiderato fargliela. Ricordo che mia madre la calmò, poi venne lui, calmò pure lui e dopo un po' tornarono a casa loro. La scena si ripetè per molti molti giorni. Perdemmo molte puntate di Alda D'Eusanio, e il mio mal di pancia si trasformò in una cosa enorme per una bimba: io avevo paura per lei, che le facesse del male, anche se ogni volta li vedevo andar via vestiti di un'apparente serenità. Lui dopo aver sbottato, veniva a riprendersela, e li vedevo sparire dall'arco del mio ingresso, come un gigante e una bambina. Una volta, dopo averli rattoppati per la centesima volta, come calzini logorati, mia madre mi parlò come se fossi già grande, già donna, e mi disse bello chiaro e limpido: questo non è amore. Se un giorno qualcuno dovesse trattarti così, io l'affucassi chi me manu! (ndr, lo strozzerei con le mie mani). Dopo qualche mese cambiarono casa, lasciando nell'appartamento attiguo al mio lo spettro del loro non amore e i fantasmi fluttuanti delle loro urla pomeridiane. Quando se ne andarono vennero a salutarci, lei era molto più magra rispetto a quando si erano trasferiti, e cercava di mascherare con un sorriso due occhi irrimediabilmente spenti. Sospirai, buttando un piccolo respiro di sollievo fuori dai miei piccoli polmoni: non dovevo più fare i conti col mal di pancia della paura ogni giorno dopo pranzo. Se n'erano andati e per tutti gli anni a venire io li ho rimossi.

Sono tornati ieri notte, quando pensando a questo post, qualcosa dal fondo delle mie viscere è risalito in superficie. Le urla della ragazza, la faccia pallida, ma l'amore. L'amore ad ogni costo, che ti fa sorridere anche per finta, facendoti auto-convincere che sì, davvero non è successo niente. Di lei non seppi più nulla, e senza troppe ipocrisie, spero abbiano divorziato. Solo stanotte, ripensando a loro, ho cambiato la mia visione precedente: non era affatto colpa sua. La sua unica colpa era quella d'amarlo troppo e di credere che le cose sarebbero cambiate. Anche se non cambiavano mai.
Per questo stesso pensiero, migliaia di donne hanno perso la vita. Migliaia di mamme sono state uccise davanti agli occhi dei loro bambini. Migliaia di madri hanno dovuto piangere figlie troppo giovani, morte per la follia di un uomo.

Non so perchè un uomo possa farlo, e come possa farlo. Allora stamattina ho chiesto a Gabriele, ch'è uomo, cosa pensa di un uomo che fa del male - non solo fisico - alla sua donna.
Penso che è una merda. Sono frustrati dentro che non sanno stare al mondo.
E io non posso che essere d'accordo con lui. Ma oggi non è la giornata per parlar male degli uomini, perchè un delitto non è determinato da cosa si ha fra le gambe, quanto da ciò che si ha dentro la scatola cranica. Non voglio fare una lotta di genere, non voglio dire che gli uomini sono dei mostri e le donne le loro vittime, e può anche capitare che un uomo sia vittima di violenza da parte di una donna, non voglio farne una questione di genere, ma di umanità.

Oggi voglio solo parlare di un fenomeno ingiusto, ed è giusto che si faccia, uno due trecento giorni all'anno, è giusto parlare da donne a donne, dire che noi ci siamo e sappiamo che è innegabile il fatto che una donna ami diversamente rispetto ad un uomo. Non di più, non di meno, ma in maniera diversa. Ecco perchè lo protegge anche se è vittima di sue violenze.

Ragazze, so che l'argomento è scivoloso e basta una parola per sbagliare tutto, ma oggi non ho più paura di parlarne, non ho paura di sbagliare perchè scrivo col cuore. Un uomo che esercita la sua forza fisica sulla tenerezza delle vostre carni, ha un problema, ma non siete voi a doverlo salvare. Un uomo che vi tradisce o che vi proibisca di vivere i vostri spazi, i vostri interessi, che intralci la vostra realizzazione personale, non vi ama. E non c'è spiegazione, alternativa, giustificazione: non c'è amore. La più grande violenza che un uomo possa farvi è privarvi della vostra serenità, ma noi donne abbiamo lottato una vita per ottenerla. Non sono femminista, non sono sessista, ma alle donne riconosco una forza diversa, una forza più forte.
Se una relazione traballa, se si trascina per anni ad alti e bassi, se lui sparisce e poi ritorna, se il vostro proverbiale sesto senso femminile vi sta dicendo qualcosa: ascoltatelo. I pugni sul cuore, talvolta, sono anche peggiori di quelli sul corpo, non accanitevi nel dover conquistare per forza un uomo che non vi renderà mai felici e non vi lascerà godere dei vostri figli. E se lui, una volta, per sbaglio, v'ha mollato un ceffone, purtroppo troppo spesso non è il primo e l'ultimo. Gli unici lividi che dovrete consentire ad un uomo di farvi, dovranno essere d'amore, di armonia tra i corpi, di fusione totale. Non perdonate, non consentite, non curatelo ammalandovi. Donne, amatevi, perchè il mondo è pieno - la fuori - di uomini che useranno le mani per farvi sorprese, regali, carezze d'amore vero.

Un uomo che ama non vi farà mai conoscere la paura.

sabato 15 novembre 2014

Cara Penelope, l'orgoglio curvy non esiste.

E non esiste perchè troppe volte è solo un alibi per non ammettere che non si ha voglia di far qualcosa per mettersi in forma.
Sono impopolare e in controtendenza coi coraggiosi inni alla rotondità che circolano negli ultimi tempi, che sia io poi a scrivere questo, dal largo dei miei settantatrè chili per un metro e sessantasei d'altezza, appare quasi un paradosso. Però è così che la penso.

L'orgoglio curvy, se da un lato è un effettivo urlo di bellezza infinita e bombastica che smantella lo stereotipo della passerella e frulla ogni briciola di tendenza ad un rapporto non sereno col cibo che sfoci in patologie gravi, dall'altro legittima molte donne ad un atteggiamento di lassismo verso il proprio stato di salute. Perchè per intenderci, avere dieci chili di troppo può pure andar bene, ma travestire l'obesità da orgoglio curvy è altamente dannoso, e molte donne ahimè lo fanno. Io sono stata una di loro: ma sì, io mi piaccio, sto bene con me stessa, e sono orgogliosa di essere una donna in carne. E così via discorrendo, con una serie infinita di auto-persuasioni che mi dessero a pieno diritto l'opportunità di non incastonarmi le chiappe su un sellino di cyclette per buttar giù i quasi cento chili che sballonzolavano sotto il mio mento e sulla panza. E sì, una cosa è un po' di pancetta - che all'uomo piace pure e ci sta - e un conto è la panza, e sfido tutte le orgogliose donne di questo mondo a dirmi che la panza che straborda dai jeans a più riprese e più strati è bella.

Senza contare poi che non ci bastavano il premestruo, il mestruo, il tacco dodici, la ceretta all'inguine sopracciglie, baffetti, disfunzioni ormonali che sfogano in montarozzi rossi sul naso il sabato sera, aspettare che sia lui a fare il primo passo, la pillola, le Spice Girls, l'assorbente interno, le gravidanze extrauterine, i lavori sottopagati, le pulizie e tutte le rogne che la donna moderna emancipata cerca di negare con altrettanto orgoglio femminino, ma che pure fa con costanza, non ci bastavano. Ci voleva pure quell'ombra impari e per niente unisex, racchiusa dal concetto di antiestetico. Tutto ciò che all'uomo conferisce fascino e gli dà più carisma e sintomatico mistero, per la donna è antiestetico.
La panza per la donna, è innegabile, è antiestetica. E questo non ce l'ha imposto l'immaginario collettivo odierno che vuole la donna ossuta, no. Questo lo impone quella cosa meravigliosa che si chiama benessere, e amore per la propria salute, e se una donna passa i tre quarti della propria vita imburrandosi il naso di pietanze sugose e unte, strafogandosi di panzerotti e tracannando bibitoni, va incontro a patologie letali esattamente quanto l'anoressia e la bulimia, riparandosi dietro lo scudo dell'ormai abusato aggettivo curvy e portando avanti una crociata del tutto travisata e insana. L'altro giorno, guardando un talent show inglese alla tv, ho visto l'esibizione di una ragazza dal bellissimo viso tondeggiante, lineamenti morbidi, ed un corpo eccessivamente grasso strizzato in un body con delle stringhe laterali che la facevano somigliare ad un cotechino incordato e pronto ad essere condito con una zuppa di lenticchie a Capodanno. La ragazza si è esibita in una lap dance con una leggiadria da fare invidia a Carla Fracci, un'armonia dei movimenti ed un'agilità estrema che comunicava sacrificio ed impegno, e tanto tanto allenamento nella disciplina del palo. Un'esibizione unica per talento e spettacolo, però sarebbe quantomeno ipocrita negare che se la ragazza avesse avuto qualche chilo in meno o avesse scelto un outfit diverso, la performance avrebbe avuto un valore diverso. Così stando le cose ha solo comunicato: si può essere bravissimi pur avendo un corpo fuori forma e, in buona sostanza, non in salute. Questo non va bene, oltre ad essere totalmente privo di buongusto.
Orgogliosa sia la donna che sa vestire la sua 46 con un abbigliamento che valorizzi le sue forme e non mortifichi la bellezza con leggins e minigonne che vabbè tu ti vedi bene ma non mi pare ti stia amando se denudi la coscia o il decolletè tremolante dallo scollo a V oltremodo profondo.
Sarebbe giusto spiegare alle nostre bimbe che un pancake con la Nutella la domenica mattina fa più che bene, ma anche le verdure non sono mica uno schifo. Si dovrebbero condurre le generazioni ad una scelta del tutto naturale di ciò che va mangiato, con un approccio non ossessivo alle forme del corpo, che sia esso magro o grasso, semplicemente non dovrebbero affatto porsi il problema. Dovrebbero godere del buon cibo, con consapevolezza, e non ingozzarsi per noia o digiunare per essere più belle, dovrebbero star serene, e se continuiamo loro a propinare orgogli grassi e magri a destra e manca non otterremo mai un'attenzione ai sentimenti reali e all'intelletto, che è ciò che veramente conta.

Quello che dovremmo insegnare alle nostre bambine è che una donna sana è una donna bella, che mangiare hamburger e patatine di tanto in tanto va benissimo ma è giusto e bello muoversi, fare sport, viversi il proprio corpo ed esplorarlo al meglio, che la dieta non vuol dire far la fame ma mangiare correttamente , e che prima o poi, quando c'hai troppi chili di troppo, la commessa stronza che ti risponde che quella gonna della tua taglia non esiste - non che non c'é, ma proprio che non esiste - la becchi sempre,e pure il compagno di scuola che deve compensare le scarse dimensioni del suo pene chiamandoti balena, anche. E queste sono ferite che nessun dietologo e nessuna parata d'autocompiacimento, potranno mai cancellare.
Non va confusa una bella quinta di reggiseno e una linea armoniosa, materna, che rende la donna femmena, con un colesterolo da fare invidia a dieci panetti di burro.

In conclusione, l'essere umano avrebbe così tante doti da portare in piazza e da rivendicare tra le folle, quali la propria affermazione, l'amore, i successi professionali, la sensibilità, che davvero un aspetto meramente corporeo ostentato, li fa passare erroneamente in secondo piano. E uomini, no, non fatevene una colpa, a voi piace farci l'amore in tutti i modi e quando amate davvero non v'importa che il sedere crolla e dopo il parto abbiamo le smagliature fin sul naso: voi ci amate e basta. Cosa che dimentichiamo con la facilità di un panino con la mortazza.
Che, per la cronaca, è bono assai.

martedì 4 novembre 2014

La vera storia dei miei biscotti Matteo Renzi.

Ogni donna ha un suo metodo per sconfiggere lo stress.
C'è chi ricorre alla palestra, all'alcolismo, alla promiscuità, alla scrittura e così via discorrendo con le più disparate attività che richiedano un contemporaneo impiego di facoltà manuali e mentali, che facciano dimenticare ciò che cerchiamo costantemente di scordare e cioè: lo scazzo.
Io ho scelto di fare i dolci, o meglio: imparare a fare i dolci. E come tutte le cose che si imparano, quindi che non si sanno già fare, i miei tentativi non hanno prodotto nient'altro che sgorbi più duri e neri della lava solida alle pendici dell'Etna. Non lo so perchè.

Due anni fa, quando vivevo ancora a Catania, co-conducevo un programma di letteratura alla radio. Un'esperienza abortiva, non per la radio, non per il programma, quanto per una totale e schietta antipatia con la conduttrice capo del programma. Reciproca, cose giuste. Una tale che alla fine decise di buttarmi fuori dicendomi papale papale che non ero cosa. Probabilmente non ero cosa per davvero, e le mie vocali aggriggendine arrivavano esageratamente dilatate al suo fine udire, O magari aveva ragione lei: non ero portata per la radio, per il lavoro in team e per accollarmi i suoi malumori.
Insomma, l'interrogativo me lo porto dentro ancora dopo due anni e passa, ma credo che non saprò mai cos'è che non le piacesse di me per davvero. Perchè racconto questa storia?
Dunque, una volta a settimana, la mia collega Federica ed io facevamo una diretta da una nota libreria in via Umberto. Bella, a due piani, e dalla balconata del piano superiore - ammobiliata con sedie e tavolini da caffè - mandavamo in onda le hit letterarie del momento, con tanto di interviste agli acquirenti di turno. La balconata, oltre che da sedie e tavolini da caffè, era - naturalmente - strapiena di scaffali di libri, e una sera da uno scaffale sentii il richiamo libidinoso di una scatolina di metallo stampata a colori. Pasticcini ripieni di marmellata, stelline burrose di Natale e praline di cioccolato ornavano il suo esterno metallico, mentre una pila di piccole ricette farciva il suo interno. 150 ricette per ogni occasione. Doveva essere mio, golosa come sono, i dolci li avrei mangiati perfino in cartaceo.

La scatolina è rimasta chiusa insieme ai miei ricordi di quel periodo, dentro il cassetto che raccoglie i rimasugli di sette traslochi. E adesso, che sono sotto col penultimo esame e la benedetta tesi, non poteva che essere tirata fuori a stregua d'una copertina di Linus. 150 piccole ricette tirate fuori in un pomeriggio di pioggia, et voilà, i miei primi biscotti allo schifo hanno visto la luce.
Il nome gli è stato attribuito da me stessa medesima, a causa dell'indefinibile sapore: aroma chiarissimo di fallimento, con retrogusto di disfatta e qualche scorza d'incapacità culinaria. Oggi, volevo chiaramente perdere un'ora prima di sedermi alla mia trista e fredda scrivania, e ho impastato da capo. Cose con cose, su cose, aggiunte a cose, sbattute e frullate con cose, per ottenere così un composto di cose d'inaudita bellezza. Una manciata di scaglie di cioccolato fondente ha contribuito a conferire un aspetto quantomeno credibile alla mia (non) opera dolciaria. I quaranta minuti ad attendere che quei cerchi bicolore assumessero le fattezze del biscotto, sono stati infiniti. In cucina, da sola, ho tenuto il naso appiccicato al vetro del forno per tutta la durata della cottura, al punto da prendere le reali sembianze di Rudolf, la renna di Babbo Natale. Un'esplosione d'odore, lapilli di fragranze e abbracci di colore hanno invaso la stanza, fino al momento del tin! finale del forno che ha decretato la fine del tanto sofferto tempo di cottura. Li tiro fuori, aspetto che si raffreddino e li stacco dalla teglia. Aspetto ancora e un altro po' ancora, assaggio il primo che mi capita a tiro, quello che sembra il migliore. Il responso è meno tragico delle altre volte, almeno oggi non mi sono scheggiata nessun incisivo e la pasta all'interno non era cruda e molle come alga da sushi.

Prestando attenzione però, a quello schieramento militare di pasticcini, trionfo di burro e zucchero fino all'obiettivo sdegno,  una cosa salta all'occhio; le gocce di cioccolato fondente gettati nell'impasto in fase di preparazione, sembrano ora tanti piccoli nei su visi tondeggianti e oltremodo sorridenti. Il segnale è chiaro, triste, e sembra volermi comunicare che nonostante tanta buona intenzione e un'apparente riuscita papillare, nei miei biscotti c'è ancora qualcosa che non va: somigliano a Matteo Renzi. E allora aguzzo quella manciata di decimi che signorina Miopia m'ha lasciato in comodato d'uso ed ecco, vedo bene, sono proprio lui, con la sua espressione molle molle, e fumando di calore mi promettono, dal basso della teglia imburrata, riforme e una vita migliore. Li ripongo in una scatola, li tappo col gran tappo Tupperware e ritorno ai miei libri.
Potevano essere dei buoni biscotti, e adesso valgono solo ottanta euro.

mercoledì 29 ottobre 2014

Piccole storie di ebola, umanità, fame e amore.

Oggi ero di ritorno da uno dei miei soliti pellegrinaggi al santuario dell'università, come di consueto sull'autobus che ogni mese che passa, inspiegabilmente, costa un euro in più e ha i sedili sempre un po' più sporchi del mese prima e sempre più fruibili del mese a venire. Ero in un limbo molle tra la sonnolenza, la fame, la pipì che mi scappava e il discorso dal tono piuttosto marcato di una matricola di lettere reduce dalla seconda lezione di letterature comparate e con la spasmodica e manifesta convinzione barra volontà di lavorare, in futuro, nel mondo del giornalismo e/o dell'editoria. Già il tedio di rivedermi riflessa in una così aperta manifestazione d'ingenuo sogno giovanile, m'aveva corrosa al punto da ripetere in loop un pezzo di Shakira - finito in download per qualche strana goliardica serata di qualche esame superato fa - poi le vocali aperte e amplificate della signorina matricola m'hanno dato la mazzata finale con l'esclamazione seguente: <cioè ma Frida Kahlo in fin dei conti che ha fatto per diventare famosa? Per il monociglio? E' diventata famosa per un appuntamento saltato dall'estetista? Ma dai!> La testualità delle parole ha polverizzato ogni micro-agglomerato di tolleranza nel mio corpo, lasciando spazio solo ai miei super benedetti Wayfarer neri e una tendina parasole a coprire la schifezza del mondo in formato autobus.
All'aeroporto sale un ragazzo alto, molto alto, e di colore. Parla al cellulare nervosamente e occupa il posto davanti al mio. Non so se i miei compagni di viaggio abbiano pensato all'ebola, ma comunque nessuno l'ha detto. Io ci ho pensato, e ho pensato che tanto all'ospedale di Agrigento basta una febbre alta o un'appendicite a farti morire, quindi ebola o no, siamo messi già male così. Dicevo, il ragazzo parla ad alta voce con un amico che l'aspettava in un paesino poco distante da Agrigento. Chiede a dei passeggeri se per caso il nostro autobus vada anche in quel paesino, in un italiano che verosimilmente è molto più comprensibile di quello di taluni favaresi con uno stuolo di interviste da far invidia a Michele Misseri all'uscita del Tribunale del riesame. Si distende, mi chiede scusa per aver abbassato troppo il sedile e io penso a quella volta che alla gita del terzo liceo c'eravamo pure portati dietro i cuscini dagli hotel per dormire sull'autobus quindi vai sciallo fratello, e s'addormenta. Mi pare che soffra, mi chiedo da dove viene e dove va, cosa lo aspetti al paesino nel quale è diretto, quanto ci resterà e se ha una casa. Le ho pensate tutte, sulla sua vita, che è la vita di altre migliaia di persone che arrivano come lui, così, scappando dalle atrocità di un futuro negato. Come il nostro, senza dubbio, solo con modalità un poco poco più brutali. Alla fermata successiva sale una coppia di due ragazzi alti molto alti, anche loro di colore, anche loro discutono animatamente. Si siedono nei posti accanto al ragazzo, ma parlano lingue diverse, lo capisco dal fatto che il ragazzo, nel chiedere loro un'informazione, gli parla in italiano e loro rispondono nello stesso modo. Chiede se sanno quanto costi il biglietto dell'autobus per andare a quel paese - qualora la vita non ce li abbia già mandati abbastanza, tutti quanti - e uno dei due risponde: due euro. Ah, due euro? E abbassa il viso, scuotendo leggermente la testa da un lato e dall'altro. E' troppo, troppo. Allora uno dei due ragazzi si guarda nel palmo della mano, dove tiene una manciata di monetine, le conta fino ad arrivare a due euro. Tieni, prendi!, gli fa. Io li guardo dalle retrovie, loro non mi vedono, ma io per fortuna assisto ad una delle scene più belle che, ad oggi, la vita m'abbia offerto, recando con se altrettanta lezione. Ho imparato che il concetto di fratellanza includa il non conoscersi per niente eppure considerarsi membri della stessa grande umanità, e che quando ci si trova tutti insieme un gran bel periodo di merda bisognerebbe dividere la propria piccola fame con la piccola fame degli altri per cercare di annientarla. Mi sono chiesta se i nostri nonni che emigravano in Germania, quando incontravano un italiano in difficoltà lo aiutavano, gli pagavano il biglietto per un mezzo pubblico, ed io scommetto che mio nonno lo faceva, non perchè era lui, ma perchè la loro generazione era più genuinamente vicina al concetto di umanità fraterna che sa che la fame è uguale per tutti. Oggi invece, da queste parti, ci si deve guardare anche dei propri fratelli di sangue, chè piuttosto che condividere si scannano, non attuando altro che la gloriosa regola del futticumpagnu. Se ricominciassimo a raccontare ciò che di bello vediamo fare alle persone, la paura di stare tutti vicini in questo mondo così piccolo non esisterebbe. E non esisterebbero colori, nomi, numeri, solo anime.
Vorrei ringraziare, anche se loro non lo sapranno mai, questi tre ragazzi che oggi viaggiavano verso Agrigento. E mentre Agrigento pensava all'ebola, loro salvavano l'umanità.

martedì 2 settembre 2014

Settembre, Gabbara e un amore così.

Per quanto mi appaia banale ed esagerata tutta questa celebrazione dell'arrivo del mese di Settembre, devo ammettere che è innegabile la necessità di risvegliarsi dal torpore delle vacanze - precisamente non so quali - per lasciare spazio alle rogne della vita.

Le rogne della vita sono quelle cose che rimandiamo, rimandiamo inesorabilmente, finché cessano d'essere definite impegni futuri attuabili con tutta calma, per divenire scadenze, ovvero cose la cui imminenza causa angoscia e desolazione.
Nella mia personale chart rognosa c'è la tassa d'iscrizione all'università - un'altra volta, sì - che ormai è un must settembrino da anni ed anni e quando non la pagherò più potrebbe persino mancarmi, l'esame di linguistica generale, rogna regina del mio percorso di studi, e la bilancia post-vacanze, sulla quale non mi dilungo per risparmiarvi una sciorinata di sensi di colpa che neanche Ali Agca dopo aver sparato a Giovanni Paolo II.

Voi lo sapete cosa vuol dire avere una suocera e, collateralmente, un fidanzato che in confronto Carlo Cracco spalma alici sulle patatine? Ve lo dico io.
Vuol dire fare dieta dal lunedì al venerdì, con tanto di allenamenti sudoripari che dovrebbero dare un effetto sodo alle mie mollezze e puntualmente non lo fanno, e poi puff, quando arrivano il sabato e la domenica è un trionfo di cucina marinara, e fritti e paste e spadellate, e un ego decisamente temprato dalle rinunce di una settimana si smonta come schiuma di latte su un cappuccino ormai freddo, cedendo alle avances di una tavola tanto goduriosa quanto peccaminosa e distruttiva della silhouette donna che mai avrò.

Dunque, mi dispiace panarmi in questo montarozzo di clichè grattugiati sul primo o il secondo di Settembre, ma anch'io ho ceduto alla lista di buoni propositi - mai e poi mai attuati. Con alcuni, ad esempio, ho fatto un compromesso sostanzioso, tipo con quello tanto diffuso e abusato della palestra: lo so e l'ho sempre saputo che la palestra non fa per me. Avrei dovuto ammetterlo a me stessa anche quella volta, dieci anni fa, che per incentivare la mia psiche di bradipo ad una certa coerenza nell'attività fisica, pagai tre mesi anticipati in una palestra di Favara, nei locali della quale mi presentai una volta e mezzo (la mezza volta perchè avevo dimenticato una felpa ed ero tornata a prenderla); un centinaio di euro lanciato dal balcone, coi quali avrei potuto fare tante cose, neanche troppissime, ma qualcuna sì. Tipo pagare la prima rata di una liposuzione.
E' stato così, con l'amara consapevolezza di non averne voglia, che ho dato vita al compromesso: se Valentina non va in palestra, è la palestra che va da Valentina. Adesso ho uno stepper, pesi per bicipiti e blablabla, che uso quotidianamente in gran coscienza. Pace fatta, dunque.
Mi piacerebbe trovare una soluzione così piena di convinto pragmatismo anche per gli esami, ma aspetto l'illuminazione.

Comunque per iniziare bene il mio settembre io ho fatto un gita nei boschi con mamma e papà. Non lo facevamo da quando avevo otto anni che si andava tutti insieme a fare le grigliate nei rifugi fra gli alberi di Cammarata. Stavolta l'aria fresca del Gabbara di San Cataldo ci ha abbracciati forte, ed è stato stimolante oltre che divertente.
Abbiamo ricevuto l'invito da parte di Amalia e Fabrizio di Doup San Cataldo, due degli organizzatori del Campfest Gabbara - musica, grigliate e dibattiti culturali - e domenica siamo saliti in macchina alla volta delle fresche frasche nissene, insieme ai nostri amici di Farm Cultural Park, Fun e tanti altri, per parlare di innovazione sociale, cultura, impresa siciliana e resistenza. Ovviamente al nostro seguito tutti i Papalove che, per la cronaca, si moltiplicano a vista d'occhio con le tecniche e i colori più disparati. Mio padre continua a stupirmi, credevo che dopo avergli visto creare gioielli per la prima volta in vita sua a 58 anni niente più potesse stupirmi, e invece la meticolosità con cui studia giorno e notte i vari stili e le tendenze mi fa pensare a quei ventenni che si credono stanchi e senza possibilità: svegliatevi, imparate a fare altro, reinventatevi ed uscite da quel futuro sottovuoto che l'istruzione o il preconcetto vi hanno spesso fornito. Non fermatevi mai, studiate e date valore alle vostre attitudini, non state a sentire nessuno, sentitevi voi di far quello che vi pare.
Eravamo proprio tanti al Gabbara, e i panini con la salsiccia e la cipolla con annesso rutto più o meno libero, secondo quanto consentito dalla femminilità, hanno fatto la differenza. Moviti Farm-o è stato un momento di scambio, focus e racconti siciliani, che - al tramonto di un sole rossissimo che moriva dietro le foglie alte del boschetto - ha confermato la mia voglia di provarci ancora, di non lasciarla ancora per un po', la mia terra.
Anche se va male, anche se le bollette non le pagherò mai facendo la giornalista, ma ancora un po' di forza e fiducia voglio tirarla fuori da questo dedalo di confusioni e risorse mancanti.

Non mi sento un'inguaribile nostalgica che mai e poi mai lascerebbe i suoi luoghi per testardaggine, lo so, lo so bene che lontano da qui sarebbe un pelino più semplice, ma so anche bene che di tutto il tempo vissuto qui, questo mi pare il migliore per seminare insieme a chi vuole crederci come me, come papà. E' rischioso, ma nessuna grande storia d'amore s'è fatta ricordare per la sua semplicità.

domenica 31 agosto 2014

Caro Alessandro, c'hai ragione.

Giorni fa, il mio amico Alessandro, ha scritto delle cose vere, le ha dette. E quando uno dice cose vere, generalmente tendenti alla scomodità, solleva sempre quella consapevole angoscia che quando diviene rassegnata, stratifica e diviene pericolo. Dunque dicendo, ha messo in circolo una serie di riflessioni sui pericoli che corro - che corriamo - e dei quali purtroppo siamo amaramente a conoscenza.
Minchia, che brutto termine, amaramente. Facciamo così: dei quali, purtroppo, siamo non troppo dolcemente a conoscenza.
Per farvi rendere conto di che sto parlando: http://www.isoladeicassintegrati.com/2014/08/28/la-mia-sicilia-del-lavoro-gratis-in-nero-merce-di-scambio-elettorale/

Mi vendo bene io, e mi sono venduta molto bene fin troppe volte a cifre ridicole.
Anch'io come Alessandro Sardone, volevo fare la giornalista, ma mai come adesso mi rendo conto di aver impiegato il mio tempo in imprese del tutto vane, che non avevano nulla della gavetta - dove gavetta sia da leggere come crescita ed esperienza - se non il fatto di essere non retribuite. Ho spizzulìato, per così dire, tra le redazioni più o meno credibili di mezza Sicilia, e se in qualcuna ho imparato i rudimenti della professione, in altre mi sono sentita perfino dire: hai solo 19 anni, quest'articolo è scritto benissimo, non può essere tuo. Da dove l'hai copiato? 
Avevo solo 19 anni ma i tacchi abbastanza rinforzati da essere battuti in ritirata in un flash. E anche tanta inesperienza, che nel tempo si è trasformata, in vari stadi: sono brava, ci credo, ci provo, dai ci riprovo, in fondo ci credo ancora, non ci credo più tanto, non sono abbastanza brava, e via discorrendo, arrivando a pensare che sì, forse è vero, valgo meno di cinquecento euro al mese.

La telefonata per quell'annuncio di cui parla Alessandro, l'ho fatta anch'io. Un tirocinio come giornalista blablabla rilascio del tesserino blablabla ovviamente non retribuito. Tirocinio non retribuito è il must have isolano degli ultimi tempi, e senti: la benzina per andare in Culonia per poi tornare a casa a scrivere mille battute di merda sulla sagra del Porco fritto, me la fai tu vero? Una vita di studi, l'università e i master del settore che mi hanno insegnato a scrivere ha con l'h, me li paghi tu vero? Le ore della giornata che, al prezzo dello stipendio che mi dai e cioè zero, avrei potuto passare a casa a studiare, guardare Sex and the City, imparare a fare pancake e ciambelloni o fare glutei e bicipiti, che fa me li retribuisci per bene vero?
Ah, no? Allora fattelo da solo il pezzo sulla sagra del Porco fritto, certo ha con l'h non è proprio assicurato e neppure il boom di visite che registra il tuo sito grazie al mio contributo, ma va bene, i tuoi lettori non se ne accorgeranno nemmeno. Sei coso tu, c'hai ormai un nome tu.

A tre materie dalla laurea, analogamente all'esperienza di Alessandro, ho lavorato un po' ovunque  e in nessuna delle cose fatte sono stata eccellente, per il semplice fatto che mammà non m'ha fatta per servire ai tavoli ma, ahimè, m'ha fatta topa - nel senso puramente faunistico del termine, no misunderstanding please - da biblioteca, di quelle classiche studentesse di lettere a cui piace usare locuzioni latine quando se ne ricordano e che vanno fiere delle pile di libri impolverati in cameretta, con gli occhiali neri e una leggera miopia che il sabato sera non ci fa riconoscere le persone e ci fa passare per stronze che non salutano più. Così.

Così mi ritrovo ancora una volta a pensare a quell'obiettivo di impresa personale che non vuole render conto a nessun superiore immeritevole del nostro sudato sapere, perchè l'esperienza ad un certo punto deve cessare d'essere utilizzata come capro espiatorio per quello che molto semplicemente si riassume nella parola: sfruttamento.
Il lavoro richiede una retribuzione rispettosa del tempo impiegato non solo durante una giornata, ma di quello che ci è stato utile ad acquisire le competenze necessarie a svolgere quella professione, che di certo non è monetizzabile in cinquecento - o meno - euro al mese.
Mi piacerebbe poter dire: ho scelto di non vendermi più. Eppure so bene io, come lo sapete voi, che ci toccherà accontentarci di un tirocinio non pagato o di un lavoro totalmente fuori contesto rispetto al nostro ambito professionale, finchè sceglieremo di non lasciare la Sicilia. Domani, forse, ci toccherà ancora servire vino bianco consapevoli che, lontano da qui, la gente come noi ha il valore che si merita, e non finisce a pensare di non essere abbastanza brava per farlo. Lo fa, la pagano, vive bene. Così come si dovrebbe. E invece, cari datori di lavoro nostrani, come pensate di far crescere la vostra attività - di qualsiasi natura essa sia - se non incentivate i vostri dipendenti? Se li sottopagate sapendo che c'è la crisi e allora va bene tutto, anche quel poco? Non pensate, d'altra parte, che un lavoratore sfruttato è un lavoratore che a lungo andare non produce? Quali sono gli effetti sulla vostra azienda?

Scrivo da nuovamente disoccupata studentessa, che ha dovuto fare un compromesso con la sua tesi di laurea e l'attività di visual merchandising che le garantiva un MAV ad Unict ogni tre mesi, domani chissà.
Dumani pensa Diu. E dalla Sicilia e i trentenni col culo a terra è tutto, a voi la linea.

mercoledì 6 agosto 2014

Vi racconto il mio papà. Papalove, i gioielli dell'amore.

Dunque ritorno, dopo l'ennesima pausa estivo-meditativa, per raccontarvi cosa bolle in pentola negli ultimi tempi. A parte una dose indefinita di carboidrati che non tengo più il conto, ho messo a rosolare una serie di progetti che mi sto adoperando per mettere a frutto, gettando la semenza su questo territorio franoso chiamato: futuro.

Bon, a capeggiare sul podio v'è quell'edificio romantico e grigiastro chiamato Facoltà di Lettere di Catania, già Dipartimento di Scienze Umanistiche. Il nome della mia facoltà è cambiato almeno tre volte da quand'ero matricola - lustri e lustri fa - questo la dice lunga sul mio profitto e sui tempi esemplari che mi son presa per ottenere il famigerato pezzo di carta. Fra l'altro, questa cosa del Dipartimento Scienze Umanistiche, è abbreviata, sul sito d'Ateneo, con la nomenclatura Disum che, non so a voi, ma a me evoca sempre l'aggettivo disumano, perfettamente attribuibile alla mission in questione: sessione di Settembre.

Ma torniamo ai progetti. E fra i progetti, quello che mi sta più a cuore è Papalove.La storia è la seguente.

Una sera di un paio di mesi fa stavo preparandomi per un'uscita serale col mio uomo e, nella solita corsa all'ultimo anello che precede le mie serate, ho notato di non avere nessun braccialetto, nessun paio di orecchini, nessun ninnolo, perlina, ciondolo, pallina o cammeo che potesse abbinarsi al colore del mio vestito. Mio padre guardava la tv in salotto, e io urlavo per casa, correndo avanti e indietro per l'appartamento, dalla stanza alla cucina e di nuovo dalla cucina alla stanza, con lo smalto fucsia - non fluo, specifico per evitare l'equivoco del gusto - ancora umido sulle unghia che, per la fretta di fare, s'erano spezzate. Mi sentivo tanto gemella Olsen in qualche film da figlia viziata ed isterica in cerca, per l'appunto, di gioiello abbinabile. Così, da brava donnina esausta ancor prima d'uscire e sotto la spinta telefonica della mia dolce metà, ho afferrato il solito braccialetto, l'ho buttato in borsa ripromettendomi di indossarlo non appena in auto e ho salutato mio padre: Papà, dovresti imparare a farmi i gioielli. Solo così avrei cose di tutti i colori. Ciao.

A questo punto della storia mi fermo un attimo, per parlarvi di mio padre. O meglio, di noi due.
Ogni figlia femmina è, per propensione naturale, legata al suo papà da un sentimento duplice, triplice, quadruplice e se scaviamo troviamo l'infinito. Il mio papà è sempre stato il mio migliore amico, la mia spalla, il mio complice e il mio confidente. Senza gelosie, senza tabù, senza bugie. Un papà a cui poter dire la verità, ma che ha sempre mantenuto - non so come - il rigore da genitore, senza fingere. Onestamente.
Fra le tante virtù che quest'uomo reca, indubbia è la sua creatività, intesa proprio come propensione al sogno, libertà mentale, fantasia estrema. Un papà gagliardo, per dirla tutta.

E' stato questo che, la mattina dopo la mia "lamentela" di non avere niente di rosa o colore similare, mio padre m'ha fatto trovare sul comodino un braccialetto di metallo e nastri fucsia intrecciati a mano.
- Papà, ma l'hai fatto tu?
- Sì, m'hai chiesto di imparare a farti i gioielli e ho cercato il tutorial su internet.
A quel primo braccialetto in metallo e nastri colorati, sono seguiti svariati braccialetti e orecchini. Con la media di due paia al giorno, perchè papà è così, quando s'appassiona a qualcosa è la fine. Deve saperla fare alla perfezione, a tutti i costi, con arte.
Qualche settimana dopo, gli ho chiesto di farmi compagnia ad uno dei tanti mercatini The second life alla Farm, durante il quale molte amiche creatrici di gioielli espongono e vendono le loro creazioni. L'ho trovato prima al banchetto di Graziana e poi a quello di Grazia, entrambe gioielliere di gran talento, a chiedere consigli e luoghi dove potersi rifornire di materiali. Casa mia in breve tempo è divenuta una piccola fabbrichetta di gioie colorate e il tavolo della cucina tappezzato di ganci, ciondoli, pc, macchina fotografica, pinze, pinzette e fili di metallo colorato. Così gli ho detto di prendersi la mia stanza, tanto la uso poco, e farne ciò che voleva, il suo piccolo laboratorio.

Un mese fa, rendendomi conto della bellezza di ciò che crea - i miei sono occhi dell'amore eh - soprattutto come frutto della sua mente sognante e della sua bontà d'animo, ho pensato di tirar su un vero e proprio brand di bijoux. Del resto, la comunicazione è il mio lavoro ed è questo che vengo a comunicarvi: mio padre crea gioielli per una figlia maldestra e distratta, e indirettamente crea gioielli per le donne, studiando forme e materiali sempre nuovi, vedendole tutte riflesse nei miei occhi e negli occhi di mia madre, che sono poi gli stessi.
E' così che nasce il progetto Papalove, nome che ho cercato per settimane e che è arrivato in un'afosa sera di luglio mentre ero incolonnata alla Valle dei Templi all'ora di punta di ritorno dai lidi. Quando ho capito che volevo avverare il suo sogno, ho chiamato Paola Merlino, mia amica e adorabile designer nonchè fashion addicted e dal suo estro è nato il logo: il mio papà ed io che lavoriamo insieme ad un'idea alternativa d'amore, quello sprigionato da un gioiello, da un colore, da una forma, un oggetto luminoso fatto dalle mani di un padre in love. Come a tutti i bravi professionisti, m'è bastato dirle cosa desideravo comunicasse e lei, tac, l'ha fatto. Perfettamente.

Questa è dunque l'ultima impresa di Semilascinonvale, raccontarvi di un legame che altro non ha fatto che sprigionare gioia e collaborazione da sempre. E siccome in questo blog s'è sempre parlato del coraggio di chi vuole ancora investire in piccole e grandi imprese qui ed ora, in parte folli, ma sempre incredibilmente genuine e divertenti, non potevo non raccontarvi della storia di Benedetto Oliveri, papà esemplare e creatore di bellezza, sempre pronto a ricominciare e ad imparare un'arte con la curiosità di un ventenne che sa di avere tempo per vedere il suo sogno realizzato, e con lui cresce, fino a vederlo vero.
Questo è solo il primo capitolo di un diario di bordo, di questo viaggio che inizia, lui ed io.
Il mio papà.

Seguiteci su https://www.facebook.com/pages/Papalove/346691212151079?ref_type=bookmark

mercoledì 11 giugno 2014

una poesia d'amore.

Ti penso e lo racconto al mondo,
perchè se uno c'ha un pensiero - un pensiero vero -
è opportuno che lo dica. Anzi lo urli.
Ti penso, che sei la vita,
l'unica vita possibile fra le tante che ho.
E sei una bella strada, per la felicità.
Quando uno ama, fa pace con l'umanità e in lei,
un pochino, ci vede riflessa la faccia di chi ama:
il parcheggiatore grasso, pensa, stamattina mi sembravi tu
e l'impiegato di banca serio, immagina, pure tu.
Il signore del bar di Piazza Cavour, poi, più di tutti
e nel caffè nero che versa afa sul mio lunedì, ancora tu.
Negli occhi degli uomini che incontro per caso nel mondo,
a dire il vero, ne vedo sempre e solo uno: il mio (ovvero tu)
Dunque scompaiono, nessuno di loro esiste più per davvero
E allora lo racconto al mondo, che da quando m'hai baciato,
- anche se sono anni -
mi gira la testa, e poi tutto il corpo continua a girare su un'asse
(che immagino la spina dorsale)
come ballerina di Carillon, come trottola su una punta.

Amore mio, afferrami mentre volo giù da un vagone chiuso male
del treno delle circostanze,
diretto verso un futuro distratto di donna per aria.
Hai la femmina che vola, col pensiero, e sogna
un futuro disegnato sulla schiuma di latte, la mattina, in un tavolo
di legno bianco
comprato e montato, solo da noi.
E delle miniature di te e di me insieme, che ci corrono
accanto sotto e strillano e ridono e scoppi di colore
di baci, ti prendo, ti mangio!, e amarsi da stanchi.
Hai la donna che ha legato il suo polso al tuo,
con un anello o un bracciale che qui chiameremo: amore
- perchè ti scrivo una poesia e in poesia funziona, si sa -
Ma oggi - non c'è ricorrenza, se non la vita -
non scrivo d'altri, non scrivo per altri, neppure per me
io scrivo per te.

Rimanimi fermo,
sul fianco sinistro, che guidi e ti bacio
una fetta di mare dalla finestra si butta sul piatto di un'auto nel sole,
- o di un possibile letto atteso -
 con un lenzuolo bianco coprimi per sempre
e - se ti va, se sei in orario, se ce la fai -
per sempre rimani con me.

giovedì 5 giugno 2014

La sogliola dei venticinque

Non so come iniziare. E in realtà non so neppure cosa scrivere. L'idea sarebbe quella di spostare il mouse sulla crocetta in alto a destra e non dare mai vita a questo post. Ma oggi, stranamente, è nato prima il titolo - senza alcun contenuto chiaro in mente - mi pare doveroso riempirgli la pancia.

Dopodomani è il mio compleanno, il mio venticinquesimo compleanno.
Ho sentito dire che è tipo un altro diciottesimo: venticinque, il quarto di secolo, per le rockstar l'anno in cui è consigliabile che comincino a strizzarsi le palle, e per me, per me niente, un compleanno. Però c'è di comodo l'arrotondamento della cifra; non ventiquattro, non ventiquattro e mezzo - che considerata la mia mezza zeppola è pure difficoltoso da pronunciare - ma un più musicale venticinque , primo gradino di una prematura scalata verso i trenta. Quando sono nata, la mia mamma aveva la mia età di ora e io so che anche la maggior parte delle vostre mamme, quando siete nati, avevano l'età che avete voi ora, e io so anche che la cosa vi manda in crisi perchè non vi siete ancora laureate, o se sì, non avete intenzione di prender marito e far bambini e dedicarvi all'hobby del rigurgito notturno, e che il copriocchiaie da venti euro vi va di consumarlo solo dopo una notte di hard sex, con svariatissime precauzioni e lattice e salti della quaglia che neppure sotto il tendone bicolore di Moira Orfei.
Invece io voglio un bambino. Piccolo, rosa, che vomiti fontane di latte peggio di un putto del Bernini, e mi tenga sveglia la notte fino a farmi desiderare di metterlo sotto chiave dentro una stanza insonorizzata con cartelle di uova consumate. Il mio desiderio per questo venticinquesimo è avere un figlio, ma lo scrivo qua, così non s'avvera.

L'altro giorno m'hanno chiesto: ma qualche pensiero alla soglia dei venticinque?
Ho risposto così di cuore: mille euro al mese, contratto a tempo indeterminato. Seguono ovvie risate e accuse di aver assunto droghe leggere (che stavolta, vi giuro, non c'entravano niente). Qualche secondo dopo la conversazione s'era spenta sul nascere ma io dentro di me continuavo lo scandaglio etilico, in silenzio, dei miei stessi pensieri a riguardo. L'unica cosa intelligente che sono riuscita a concludere è stata l'assonanza di soglia con sogliola. Me lo sono ripetuto un paio di volte - dev'essere stato uno di quei momenti in cui penso in silenzio e con la bocca aperta tipo Carlo Verdone in viaggio con la nonna - e rovinosamente sul mio sguardo bagnato di Charme bianco è calato un enorme velo di tristezza chiamato: DIETA.

La DIETA - scritta in maiuscolo per evidenziarne il potere terroristico - è stato un elemento fuorviante per la mia già discretamente fuorviata psiche, in quest'ultimo anno. Alla soglia dei miei ventiquattro anni, non ho alcun problema a svelare al popolo dell'internet, che ero un bel maritozzo di 98 chili. Novantotto chili di pappagorge. Così mia madre, stanca di dover pagare l'ICI per la mia panza (questa l'ho rubata), m'ha tagliato il cordone ombelicale che mi collegava alle sue padelle unte e bisunte, e mi ha nutrito di verdurine e sogliole in umido per un bell'anno pieno, m'ha incastonato il culo sul sellino di una cyclette, ed io - che la bicicletta ormai l'avevo voluta - ho pedalato. E' stato così che, ai venticinque ci arrivo con venticinque chili in meno, tondi tondi e pari all'età, per ironia della fame. Comunque adesso so perchè si utilizza in extremis il detto più brutta della fame, perchè la fame è proprio uno stato mentale, una tortura cinese che ti porta a pensare a panini, piadine con mortazza, gelati pistacchiella e panna cotta alle quattro di notte, solo ed esclusivamente quando sai di non poter mangiare. Di contro, appare totalmente naturale, che nel free day io riesca solo a ingurgitare gallette di riso, ovvero dischi di polistirolo con un packaging più accattivante. E comunque sì, quello che ci raccontano sul mangiare bene e fare movimento è tutto vero, fa dimagrire. La buttanata invece sono le pillole schifo ripiene di schifo che dei pop up automatici ci fanno partire sul display del cellulare o sul pc mentre stiamo navigando, proprio in prossimità della prova costume come il dio del marketing comanda: ma come vi convincete a dar fondo allo stipendio per acquistare cose prodotte in Papuasia e che per quanto ne sapete potrebbero pure contenere sterco compattato di animali? Secondo voi, basta un poco di zucchero e la pillola va giù a risucchiarvi il grasso prodotto dalla porchetta intera che avete mangiato a pranzo? Le ragazze che pubblicizzano il prodotto prima erano veramente le ciccione fotografate con didascalia before? Una pillola acquistata su internet, senza mangiare sano e senza muovere un alluce, vi regala un six pack strepitoso sugli addominali?

Non so come sono finita a parlare di questa roba.
Dopodomani è il mio compleanno e sto pensando anche che è il primo compleanno senza la mia migliore amica vicina. L'essere migliori amici prescinde dalle distanze spazio-temporali, e anche dai silenzi, e anche dalle incazzature; è una condizione che ti porti dentro e la proteggi dalle insidie esterne, e adesso che se n'è andata, adesso che non c'è, è ancora nel mio cuore, è ancora vicino a me. E quando comincio a citare De Gregori dev'esserci un compleanno o un capodanno di mezzo, qualcosa che tiri fuori la parte stucchevole del mio smisurato ego intinto in una vasca di glucosio. Quando ci siamo conosciute, e per il lungo tempo a venire, mi chiedeva di tanto in tanto un mano coi compiti di inglese. Adesso vive a Londra e l'altro giorno m'ha inviato un video su Whatsapp in cui un signore ubriaco ballava sul ciglio di una strada interagendo con loro spettatori, lei filmandolo ha detto: You're famous now. E l'ha detto proprio bene, da vera inglesina come la marca dei passeggini, e sono giorni che penso che adesso parla proprio un'altra lingua, vive proprio in un altro posto, e non mi basterà prendere un autobus per far festa con lei e poi tornare a casa e far festa coi miei. Due torte, due sbronze, due spumanti. Niente. Però mi resta una parete con una grande cornice che raccoglie anni di feste, e sotto una cornice più piccola, rossa, con una foto del mio quindicesimo compleanno: io pallida e con ricci ribelli, lei già nera col costume da bagno e i lineamenti morbidi da bimba.
E un tatuaggio come regalo di compleanno qualche anno più tardi, che m'ha sempre detto che c'eravamo ancora, che ci saremmo state sempre, nonostante tutto. You're famous now, e vorrei abbracciarti forte.

 Quello che ho fatto durante quest'anno ve l'ho raccontato, non tanto perchè credessi che qualcuno potesse realmente essere attratto dalla vita una blogger di paese con una vita medio-monotona, che non si laurea mai e lavora in parrucchieria. Impossibile fare un ringraziamento, tutti i miei amici sono stati splendidi e presenti in quest'ennesimo faticoso anno, senza mai rimproverare i miei silenzi o le mie grandi assenze, le mie mancanze facilmente scambiabili per una superficiale forma di affetto passeggero e conveniente. Loro sono rimasti, tutti, qualcuno è persino tornato perchè il bene vero non passa mai per davvero. Io, dal canto mio, ve lo dico che siete l'unica cosa da festeggiare: le persone che mi fanno sorridere. Davvero non c'è niente per essere felice, Vale? mi chiedo in solitaria, ai bilanci serali, e quando passo in rassegna le vostre facce e perfino gli occhi ignoti di chi legge questo blog, io mi sento già bene, non meglio, proprio bene. M'ero ripromessa di lasciare il miele fuori da questo barattolo, ma n'è uscito stracolmo, perchè son fatta così, il cinismo non m'appartiene anche se mi piacerebbe tanto.
In chiusura io voglio spendere due parole ad un signore che è mio amico, Gianni Di Matteo.
Un professionista e un gran papà, potrei dire molte cose su di lui, potrei farvi solamente vedere il suo sorriso intelligente coperto di barba bianca ironica e disincantata, potrei raccontarvi che va ai concerti rap e poi torna al suo lavoro di arch prof ing che fa tante di quelle cose che neanch'io riesco a stargli dietro. Ecco, caro Gianni, io non so se tu lo sai che lo so che loro lo sapevano ma io no, ma voglio dirti grazie. Grazie di cuore, per essere stato presidente, guida, capitano, padre, zio, amico per noi Funners, e poi grazie per aver fatto per me quello che io non ho potuto, grazie per avermi dato la possibilità di fare, col silenzio e la discrezione che solo ai grandi uomini è giusto tributare. Grazie, Gianni.

E così son quasi passati venticinque anni da quel giorno che alla mia mamma aprirono il pancione e venne fuori quel mezzo chilo di ossa che sarei poi io, e io di anni me ne sento qualcuno in più, perchè ognuno di voi m'ha dato qualcosa e grazie a voi son cresciuta - pure a chi m'ha voluto male, chè io pensavo fosse impossibile volermene, essere invidiosi ma di cosa poi e invece a farvi rodere il culo ci vuole il tempo ridicolo di un'eiaculazione di un trentenne vergine con calzino bianco al primo rapporto sessuale - sono diventata una quasi donna, con qualche chilo in meno, dei colleghi pazzeschi, un fidanzato speciale, un'amica lontana e molti vicini, e tanta, tanta voglia di stancarsi ancora, correre da una parte all'altra, rivedere la Spagna e un po' di Francia, finire la tesi, sentirsi bella anche se non è vero, godere con la mente e poi anche col corpo, prendere appuntamenti per pieghe e colori, e lottare per un papà molto buono e una mamma assai presente.
E poi, ma un compleanno cos'è oggi se non un compendio d'auguri da parte di sconosciuti su una bacheca, un conto alla rovescia fino alla mezza per una tirata d'orecchi, e un entusiasmo che si esaurisce su un calendario sempre più lungo, stretto di scadenze, largo d'entrate. Ma è ancora possibile sentire la magia che c'era da bambini, coi tavoli pieni di sandwich al formaggio fatti da mamma e gli inviti di Minnie disegnati da papà e il vestito verdazzurro di Barbie Sirena dentro uno scatolo, o la felicità posticcia di venti tequila in una notte di giugno di qualche anno fa? E' possibile credere che un giorno che ricorda quello che ci ha visti aprir la finestra su questo mondo balordo sia effettivamente da far festa?  A me oggi sembra così complicato. A me oggi viene in mente solo la sogliola in umido.

Ah, per chi se lo stesse ancora chiedendo, novantotto meno venticinque fa settantatre.

mercoledì 28 maggio 2014

Un banana daiquiri non ha mai fatto niente.

Stavo fissando - da giorni - questa pagina bianca in attesa di un segno qualsiasi che mi aiutasse a raccontarvi una storia, una storia attuale. Il segno non è arrivato fino a questa sera, che ero in balcone e il clima, misto e confuso, m'ha riportato indietro al duemilanove forse dieci: esterno, Catania, tarda sera di Maggio, tavolo di un pub qualunque di Piazza Teatro.
Vestivamo a strati, col cotone leggero sotto e quello forte sopra, i jeans e le scarpe aperte perchè a Catania fa caldo prima, e dopo fa sempre caldo di più. L'aria ferma, turbata  da qualche alito d'aria marina proveniente da S.Giovanni Li Cuti, ci giungeva fresco ma centellinato, al punto di rinfrescarci la fronte per pochi minuti. Poi se ne tornava al mare, a guardare la luna. Eravamo quattro amici al bar che volevano cambiare il mondo,smezzandosi una Castello gelata al centro di una città che sapevamo non nostra. O almeno io sapevo non mia, se non di passaggio, temporanea. Non ho mai amato veramente Catania, se non per due o tre cose di Catania, e credo che il motivo sia il costante sentimento di nostalgia e mancanza di casa che mi ha accompagnato per il quasi quinquennio in un cui ho vissuto all'ombra do Liotru. Svegliarsi pensando a Favara e tornare a Favara desiderando che i giorni di vacanza non finissero mai e invece, puntualmente, finivano. Fin quando non ho deciso di fare della mia vita una bella vacanza a Favara, ma piena di cose poco riposanti. E allora, tutto sommato, ha funzionato.

Ma torniamo a quella sera di quattro barra cinque anni fa.
Al mio stesso tavolo, proprio di fronte a me, stava seduto un ragazzo di cui fingerò di non ricordare il nome, alto e grasso, il cui grasso strabordava  dagli interstizi ovali tra bracciolo e schienale della sedia di vimini, calava fuori lateralmente come pasta di pizza sciolta e cremosa quasi a toccare il pavimento nero della Piazza. Gesticolava con una LaCoste consumata sul colletto da finto proletario, trattando i temi più disparati con una dimestichezza che all'epoca doveva essermi sembrata buona informazione e doveva avermi messo vagamente in soggezione, dato che ricordo i contorni della sua figura molto più dilatati di quanto essi siano realmente. Mi era sembrato grande, e al momento di ordinare, aveva lasciato scappare fuori dalle labbra insalivate: per me un banana daiquiri.
Un banana daiquiri, un banana daiquiri,
continuavo a dirmi in testa. Io appena ventenne, un banana daiquiri non l'avevo bevuto mai e anche adesso, che il mio futuro marito è un bravo barman, devo dire che non ho avuto il piacere. Forse perchè ormai lo collego alla figura di cui sopra, dando origine a quel rifiuto spazio-temporale che mi impedisce di sorbire la bevanda.
Comunque il tizio dopo cinque minuti aveva il cocktail sotto il naso e lo guardava che manco un sessantenne col televisore su Tele Monte Carlo alle quattro di notte. C'era pure una ciliegina candita sopra, roba che rendeva il tutto un perfetto preludio ad un gravissimo porno di bassa qualità o ad un qualsiasi programma di Amanda Lear. Il borghesotto proletario sorseggiava molto coerentemente il suo banana daiquiri e guardava noi tarde matricole sperando di accaparrarsi le nostre ingenue scelte elettorali in ambito universitario, incentivando così la sua promettente carriera politica. Ancora oggi al tg nazionale non l'ho sentito mai una volta e credo d'esserne colpevole considerando che la sua promettente carriera politica non l'ho incentivata neppure per 'sto cazzo.
Avidamente raggiunse il fondo del bicchiere, tirando su dalla cannuccia con la voracità tipica del porco - e mi rammarico dell'immeritata offesa all'amico suino - e galvanizzato dall'alcool, che non aveva fatto altro che amplificare la sua logorrea, aveva tirato fuori il cavallo di battaglia usato ed abusato dai migliori venditori di fumo del globo: il cambiamento. 

Quella parola me la porto dentro da quella sera, sul fondo della mia coscienza, chiedendomi se per caso in questi anni ho effettivamente contribuito a inserire un reale tassello in questo difficile puzzle, cioè quello di migliorare il posto in cui vivo o se somiglio un po' a lui, il tipo con la polo che ciucciava ciliegie candite e non mi diceva niente di nuovo. Sul fondo della mia coscienza c'è un residuo di incompiutezze e promesse mantenute in parte e che mi fanno sentir fortunata di non essere dalla parte del promettente, ma dalla parte di chi attivamente ha continuato a pensare ad una reale soluzione che potesse girare nuovamente una ruota ferma.  E questa mattina, mentre ero al lavoro, un episodio mi ha svelato con chiarezza tutto:
un gruppo di una ventina di persone di mezza età era guidato dalla mia amica Lidia verso la Chiesa Madre di Favara. Vedendola, ho aperto la porta e mi sono fermata sull'uscio per starla a sentire, come parlava di Favara ad un gruppo che presumibilmente era appena stato in visita a Farm Cultural Park. Lidia ha guardato il salone, le ho alzato la mano e lei sorridente ha detto: ecco signori, da quella parte una di noi, una di Farm.
A me è salito il magone, quaranta mani alzate solo per me, e solo perché ero una di Farm. 

E sul fondo della mia coscienza molte guerre hanno trovato pace, perchè ho capito che il vero cambiamento non è fatto di parole in una piazza portate via dal vento verso il mare, dove annegano, ma è fatto di parole a cui seguono fatti a cui seguono gruppi di venti turisti tutti contenti di vedere il centro di Favara.
Vi ricordate Favara Urban Network? Vi ricordate di noi?
Noi siamo tornati a parlare di bellezza e di Favara, abbiamo individuato dei piccoli posti e li abbiamo immaginati ripopolati di bambini che giocano, adulti che passano e si fermano e ci passano del tempo, e gruppi di persone fantasiose disposte ad impiegare sette giorni del loro tempo per proporre un progetto di rivalutazione di questi piccoli posti vuoti, trasformandoli in pochi metri di felicità urbana incastonati tra i palazzi della città. Come un fiore dalla roccia, come una macchia di colore in mezzo al cemento. Nasce così il progetto Arripigliala, di cui vi darò maggiori dettagli nei prossimi giorni. Per adesso ve ne parlo e cominciate a farvi un'idea: cosa credi si possa fare in una settimana in due metri di asfalto? Noi ti diamo il materiale, tu e i tuoi amici ideate, papà e zio ti danno un mano a tirare su il progetto. Ed è fatta. Un'area cambiata è un'area salvata.

Se il posto dove vivi non ti piace non devi per forza lasciarlo, basta farlo somigliare a quello in cui ti piacerebbe vivere. Non stare seduto a convincere gli altri che la tua idea è buona, mettila in atto e sarà migliore. Fa in mondo che sul fondo della tua coscienza, la sera, rimanga un grumo di colore, la consapevolezza d'aver fatto più che d'aver detto e quando ti sentirai parte viva del nuovo vestito che la tua città ha indossato nel corso degli anni, capirai d'aver vinto tu. Il vento del cambiamento soffia su Favara ed è un vento che, nonostante tutto, nessuno ha fermato.

venerdì 9 maggio 2014

Due chiacchiere con Tommaso: andare ma tornare, l'amore per la Canicattì contadina.

Da qualche mese lo tengo d'occhio sul social dei social, e ho sempre letto con attenzione i suoi pensieri su questo posto, la Sicilia, in particolare su Canicattì, il paese in cui è nato e cresciuto.

Allora gli ho scritto un mail, a Tommaso Mancuso, il mio amico riccio e simpatico, studente di Medicina a Palermo, e gli ho chiesto di raccontarmi un po' di roba. Roba da Semilascinonvale, s'intende, chè l'avevo capito che qualcosa di grosso sarebbe uscita fuori. Non era solo qualche status su Facebook, e non era neppure la retorica in cui ci si imbatte spesso parlando coi ventenni; avevo intravisto un germe d'affetto profondamente vero e carnale nell'attaccamento ai suoi luoghi, quindi mi fa un certo piacere riportare fedelmente la conversazione che abbiamo avuto. Ecco qua.

Tommi, raccontami un pochino cos'è che ti piace e cosa ti fa incazzare del vivere qui. 

Fin da piccolo ho visto la Sicilia, e Canicattì in particolare, come il mio futuro una terra in cui inventarsi ogni giorno, dalle mille potenzialità, fatta di gente onesta e tanta gente mafiosa nel Dna.
Qui sto bene perchè, a parte le risposte scontate del tipo: c'è la mia famiglia e i miei amici, - che poi non è così vero perchè con gli anni stanno andando via parecchie persone a me care, in giro per l'Italia e l'Europa - io sto comunque bene perchè la mattina mi alzo col sorriso e con la voglia di mettermi sempre in gioco. Qui è una lotta e a me piace lottare poi, sinceramente parlando, alcune sono cause realmente perse, sono lotte perse a priori, e altre invece si possono e si devono vincere. Nel concreto la piaga che si deve sconfiggere non è una piaga assurda ma è la lotta al miglioramento personale, perchè io dico sempre che si è troppo presuntuosi a pensare di cambiare la gente, bisogna cambiare se stessi, migliorarsi, e in automatico si migliora la società. Se cerchiamo di cambiare gli altri ci stiamo imponendo su personalità sconosciute, e perlopiù quando ci illudiamo di conoscerle le stiamo cambiando a nostro modo. Stiamo facendo un grande danno. Ho dei sogni su Canicattì stessa, mi piacerebbe vedere nascere una zona di piccole industrie, di medi artigiani che sanno fare tanto bene il loro lavoro e che gli sia data la possibilità di fare business a livello nazionale e internazionale, come meritano.

Qual è uno dei posti di Canicattì o dintorni che vorresti vedere più valorizzato, sfruttato, con qualche iniziativa o azione artistica, che so, qual è?

Io con l'arte siamo due cose diverse, ho tanti amici e amiche artiste ma io di arte non ne capisco un fico secco, però mi piace tanto e investirei proprio sul bello di Canicattì. Un mio grande sogno è pure vedere rinascere Canicattì da quello che è sempre stato: un paese dalla tradizione religioso-agricola. I miei due nonni hanno portato avanti famiglia, con sei e otto figli, oltre i loro hobby avevano le campagne e hanno permesso ai loro figli - miei zii - di studiare e trovare lavoro qui e nel mondo. Mio nonno Tommaso, ad esempio, qualche anno fa ho scoperto essere tra i primi sindacati della Camera del Lavoro di Canicattì ma il suo appezzamento di terra non lo abbandonava mai e invece noi ripudiamo la terra, come un lavoro non tanto figo. Siamo tutti contadini a Canicattì, nel profondo della nostra anima e ne sono fiero.

Dovremmo tornare più a contatto con la terra, sono d'accordo. A me piacerebbe averla, una casa con l'orto e una piccola vigna. Tu come la vivi, la campagna?

Io la campagna vera e proprio la vivo per la mia ricerca interiore io vivo la campagna come villegiatura in realtà, non voglio fare il figo che aiuta il padre, ho sempre fatto altro per aiutare in famiglia, ho cercato l'utile e il dilettevole alcuni non concepiscono la mia spiritualità ma sono molto spirituale adoro la meditazione ma soprattutto la ricerca interiore e quando leggo soprattutto o quando scrivo i miei pensieri vado in campagna nell'assoluto silenzio e il cane che mi fa da guardia.

Come ti vedi fra cinque anni, e dove soprattutto?

Fra cinque anni non sarò a canicattì e forse nemmeno in Italia, ma voglio sottolineare che andrò via per un miglioramento della mia formazione da futuro medico, voglio investire e internazionalizzare la mia formazione e spero tanto che l'Italia, nel frattempo, abbia la coscienza di farci tornare perchè è un investimento sia per me che per la nostra terra. Ho tanti amici in Erasmus e altri amici che lavorano all'estero, alcuni di loro rimarranno fuori e altri torneranno, e saranno delle bombe di successo, se l'italia gli darà credito. Vado, prendo e torno. E comunque fra 5 anni mi vedo Medico, vorrei esserlo con tutto il mio cuore, mi batte ancora il cuore come quando ho superato il test per l'accesso.

Raccontami la storia più bella, legata alla professione medica, che hai vissuto o sentito fino ad oggi.

Da piccolo, ciò che si chiede a tutti i bambini è "Cosa vuoi fare da grande?", e ognuno di noi naturalmente ha delle visioni celestiali di ogni professione. Io ero indeciso se fare l'attore, il presentatore o il cantante, tutto in uno, o il medico perchè una volta all'anno, d'estate, tornava qui in Sicilia un mio zio, il fratello di mio padre, e ogni volta che tornava era e continua ad essere una grande festa. Non capivo mai perchè casa mia si riempisse di gente, un via vai continuo di persone che mio zio accoglieva gratuitamente perchè è uno specialista di chirurgia e microchirurgia nel campo dell'ortopedia. In pratica passava le sue vacanze a fare consulenza medica totalmente gratuita e la cosa che mi faceva impazzire era che le persone - ero davvero piccolino - se ne andavano col sorriso ma venivano col viso pieno di dolore.Lui gli ridava la speranza. Ora non voglio che sia visto come un santone anzi, è una persona umilissima ma è questo che il medico che deve essere: una persona che umilmente faccia il proprio lavoro perchè tanto il risultato è quando le cose vanno per il meglio: dare gioia di vivere. Adesso grazie alla sua umiltà è Cavaliere del Lavoro della Repubblica Italiana in Germania, Vincenzo Mancuso.

Lo sapevo che sarebbe stata una bella chiacchierata, Tommi. Augurami qualcosa. A me e a chi ti sta leggendo.

Si è persa l'abitudire di benedire le persone, di essere positivi, di aggiustare invece di rompere e cancellare, auguro a tutti di guardare il mondo brutto e bastardo con gli occhi di un bambino, e ad ogni sgarro sorridere come risposta al tuo peggior nemico, perchè se sei positivo l'universo, o Dio, Buddha o chi per loro risponderà positivamente, qualsiasi religione tu sia o non sia.

Alle parole di Tommaso non mi sento di aggiungerne neppure una, sarebbe superflua. Sono molto felice, grazie Tommi.





domenica 4 maggio 2014

Il cliente ha sempre ragione, ma anche no.

Ok, dopo qualche settimana di troppo stop, m'ero ripromessa di ricominciare a scrivere parlando di cose e persone interessanti, tipo quelle che ho incontrato in occasione del primo maggio alla Farm; tanti amici, vecchi e nuovi, che con le loro innovative proposte di progettazione siciliana e non, m'hanno ricaricato notevolmente. E avrei anche potuto scrivere del mio amico Tommaso, canicattinese brillante e giovane studente di Medicina, o di Alessandro e la sua Edicola dell'Innovazione o ancora del mio amico Tommy, neo-zio di due gemellini (ne approfitto per fare gli auguri, ancora una volta, a Melania e Morgan) e di come porti alta l'happiness flag anche alle Mauritius, insieme alla sua energica crew.
Oggi avrei potuto riaprire il blog e scrivere di molte persone intelligenti e buone e appassionate di qualcosa, eppure sento la necessità - scusandomi con ognuno di loro per aver spostato il focus su qualcosa di molto meno meritevole - di raccontare quanto accadutomi ieri, a lavoro.

Dopo il grande successo - insomma grande, normale diciamo ecco - riscosso da Don't call me shampeesta mi ritrovo nello stesso posto, il mio blog, a parlare di una persona che s'è creduta chissà chi  e s'è meritata una lavata di capo, in tutti i sensi, e dall'alto dei suoi 'anta anni m'ha sputato addosso un veleno che manco un black mamba che ha ingoiato sette cupcake al cianuro purissimo. Vi racconto. La signora in questione, dopo un'iniziale scenetta al lavatesta in cui pretendeva d'esser sbrigata, ch'era stanca e aveva un sacco di cose da fare, stravolgendo ritmi e organizzazione interna di noi dipendenti, non s'è calata la nostra cortese richiesta di sedere e aspettare un momento, chè fra poco ci saremmo occupate di lei. E da qui, dalla premessa, io voglio sottolineare la cortesia della nostra risposta, mia e della mia collega. Seguono rimostranze, petulanze, denunce di poca professionalità alla titolare e tanta roba bella che neppure il venerdì mattina al mercato di Favara. La signora comunque viene celermente sciacquata e accompagnata in sala dove la titolare si sarebbe occupata di lei, si legga però: round secondo di lamentele sul nostro operato e accuse contro un'altra cliente che, ritenendolo opportuno, s'era inserita nel discorso cercando di spiegare alla signora che ogni sua rimostranza era fuori luogo dato il nostro corretto svolgimento di questo e quello eccetera eccetera.
A questo punto della storia mi fermo e mi chiedo se sia giusto continuare col racconto, se sia il caso di riportare per intero ogni passaggio rendendo il tutto molto meno fluente. Decido di passare al clou dell'azione, per non tediarvi e per non trasmettere via web l'ulcera gastrica provocatami dal continuo brusìo, acido e cattivo della signora, in sottofondo ad una mia diretta conversazione con la mia datrice di lavoro.

- Signora, perfavore sto parlando io, mi lasci organizzare due cose e poi può dire quel che vuole. - , queste sono state all'incirca le mie parole, pronunciate con calma, pacatezza, normalità. Con giustizia: stavo parlando, dovevo lavorare, cazzo fammi finire e poi continui il tuo vomito di assurde e sterili polemiche per uno sciampo fatto quattro minuti fuori dal tuo planning pomeridiano. Avrei potuto dirle: e allora signora bella, c'ho venti persone che urlano che tocca a loro, e le devo calmare tutte, le potrei sedare ma credimi non m'è concesso dalla legge, e tu continui a interrompermi mentre io parlo con l'unica persona che può darmi ordini di gestione, per dire cosa? Cagate signora, cagate! Perchè t'avevamo trattato bene sin dall'inizio, come non meritavi, ma siccome sei la cliente e allora c'hai sempre ragione tu come tutte le altre, allora una deve tenere tenere tenere e impostare le orecchie su off perchè c'hai ragione tu, ma sai signora quando io sto facendo il mio lavoro bene, anzi più che bene perchè non è neppure il mio lavoro, tutta la tua spocchia non me la sto meritando e ti chiedo con cortesia di rimandare a dopo la tua immotivata lamentela del cazzo. Tanto ora tu te ne torni a casa, accendi rete 4 e sfoghi lo scazzo con una rissa di Forum, io continuo a star qua, a dar retta ad altre decine di persone per svariate ore e lo scazzo non mi passa, no.

Avrei potuto dirle tutto questo, e chi mi conosce sa che aver resistito tacendo è stato un gran sacrificio, ma ho detto solo, stringendo i denti: - Signora, perfavore sto parlando io, mi lasci organizzare due cose e poi può dire quel che vuole. - niente di più, niente di meno. La reazione?
- Senti tu, non hai per niente educazione lo sai? 

Segue nel mio stomaco tempesta biblica, tuoni e lampi, schiocchi di merli frusci di serpi per citare uno dei versi più assonanzati della nostra letteratura italiana, e una serie di desideri non avverati che qui non riporto per non inneggiare alla violenza e perchè io sono peace&love e mi piacciono i bambini e non vorrei che fra vent'anni i miei figli, leggendo le pagine ingiallite di questo blog, sappiano che la loro madre è capace di partorire tali sevizie con la fantasia. A questo punto la storia si fa pulp.
- Come scusi, non ho per niente educazione?
- Sì, esatto, è proprio così, non ne hai.

Bene, avrei potuto risponderle:
Ma come si permette? I miei genitori m'hanno dato un'educazione con un rigore che neppure il sergente Hartman che punisce Palla di Lardo perchè gli trova una ciambella nascosta, e lei viene qua a dirmi che non
ho educazione? La vera maleducata è lei signora... io... io...ma come si permette...sono una dottoressa (ah, Laurea se solo non t'avessi già e non dovessi aspettare Novembre!) ...i miei genitori... che vergogna... maleducata io, ma come si permette davvero!
Ed è stato esattamente quello che ho detto, e i puntini sono da tradurre con l'inizio dei miei singhiozzi, non d'imbarazzo e neppure di rabbia, ma di dolore. Dolore pensando ai sacrifici di mio padre e mia madre derisi da una signora che aveva solo qualcosa da recriminare su uno sciampo.
Poi io glielo volevo anche raccontare che alle elementari ero sempre al primo banco e un anno vinsi il premio educazione e un pacchetto di caramelle, che alle medie avevo sufficiente in matematica e ottimo in condotta e che al liceo studiavo poco ma l'unica cosa che mi salvava era l'educazione. Glielo volevo raccontare che ancora le mie maestre m'incontrano e si ricordano di me perchè ero buona più che brava, che ho sempre diviso il mio con gli altri e non chiacchieravo mai durante le lezioni, anche se sono logorroica. Che mio padre e mia madre m'hanno insegnato a dare del lei alle persone adulte, a non rispondere mai male, a parcheggiare bene, e a pagare le tasse, a masticare la gomma a bocca chiusa, a parlare a bassa voce al ristorante e non chiamarli mai MA e PA che è da ragazzi lavativi e non ho bisogno che dopo tutto questo, reputo ottimo lavoro che hanno fatto con me, arrivi una che neppure conosce il mio nome e si permetta di sindacare non sul mio, ma sull'operato di chi mi ha messo al mondo.

Cara signora, se t'ho risposto come t'ho risposto è perchè te la sei cercata e non importa che tu abbia cinquant'anni più di me, perchè hai mancato di rispetto non solo al mio sudore quotidiano di cui tu non hai neppure lontanamente idea ma hai sminuito con un aggettivo - maleducata - il lavoro di una famiglia intera. E no, non per quanto tu sei adulta e io sono pischella puoi dirmi quello che ti passa per la testa o se vuoi dimmi che ti bagno il colletto quando faccio uno sciampo o ti faccio il caffè troppo lungo, ma non mi pare che io e te, cara signora, abbiamo mangiato la pizza assieme che puoi dire che faccio rumore quando ingoio la Coca- Cola e non ho educazione. Ho cinquant'anni meno di te, dovresti essere tu a farmi d'esempio e invece che fai, t'arroghi il diritto di buttarmi più sotto della roccia madre della Terra, per cosa? Per uno sciampo. Dei capelli. Un'ora in un salone. E la vita? Te la chiedi com'è la vita vera? E quante volte si deve far finta di non aver capito bene, di non aver sentito, e sorridervi sempre perchè voi sganciate il cash? Ma che cosa ne sai tu signora dell'educazione, anche se sei più colta e navigata di me, ma che cosa mi vuoi insegnare se m'hai mandato a letto con le lacrime e ho dovuto nasconderle a quella Santa Donna di mia madre a cui ho detto solo: Sono stanca, scusami mamma.

Scusami se mi sono difesa e t'ho portato l'onore che meriti. Scusa se mi son fatta portare rispetto e scusami se ad un certo punto della storia non le ho più dato del lei, come m'hai insegnato tu.

P.S.: amici, lettori, quando andate in un negozio, un posto pubblico qualsiasi, un bar, un ristorante, abbiate l'accortezza di pensare che chi vi sta servendo non è uno schiavo, è un lavoratore. Ci sono anche quelli vastasi, ma quando beccate persone per bene comportatevi bene anche voi. Ognuno di noi ha la sua guerra personale, non tutto è giustificato dal denaro e da che parte a che parte viaggia. Dietro o davanti il bancone o un registratore di cassa, siamo prima di tutto esseri umani. Take care.

giovedì 20 marzo 2014

Non mangio pesce, però lo mangio. Storie di coraggio empedoclino.

Stamattina mi sono svegliata alle sei. Spontaneamente, energicamente, erroneamente.
Senza neppure l'esaurimento della palpebra da una tonnellata per colpa di una sveglia biologica troppo precoce. Niente, la serenità. Per cui mi sono guardata un po' intorno, dopo il caffè annacquato delle moke casalinghe, e le opzioni erano:
- dimezzare il K2 di maglioni maglioncini pantaloni jeans gonnelline e gonnelline di jeans, che popola il mio disabitato letto;
- ossigenare i polmoni all'aria aperta per un tempo superiore al mezzo minuto;
- scrivere un post-contenitore, più o meno inutile, su tutte le cose belle che ho fatto negli ultimi giorni (roba d'interesse seriale, insomma).
Indovinate quale ho scelto.

Come dicevo, sono sveglia da quasi due ore, ed è veramente troppo presto anche per arrivare presto a lavoro. Più presto del presto, però c'è un sole incredibile ed è una giornata eccessivamente bella per essere ignorata. Mi comunicano dalla regia (ciao Fede) che oggi, alle 17.57 è ufficialmente primavera. Io credevo arrivasse domani, ma la fonte mi pare piuttosto attendibile e poi il solo pensiero di aprire una scheda Google solo per verificare la notizia, m'invecchia di vent'anni.
Dormo poco, dormo presto, e ho il sonno leggero, come le nonne; io non prendo la Cardioaspirina e neppure le pillole della pressione che stimolano la diuresi e fanno fare tanta plin plin, ma insomma siamo là.
Io credo che a farmi svegliare così bellamente di buon'ora sia stata la caponata col pesce spada di ieri sera.

Ok, parentesi enogastronomica, credo la prima di tutto il blog.
Com'è ampiamente noto ai più, il mio uomo - oltre ad essere un'eccellente buona forchetta - è uomo di mare. E si sa che al mare si mangia bene, non solo il pesce, si mangia bene tutto. Perchè c'è il mare che ti apre l'appetito, quindi ovunque arrivi c'hai già l'effetto post-giornata in spiaggia anche a Novembre, e poi perchè se vai nel posto giusto trovi persone ai fornelli che il tuo appetito non possono fare altro che triplicarlo, a discapito del gluteo già di per sé soggetto ad un'inarrestabile gravitazione verso il basso.
Come già detto circa le abitudini palatali del mio adoratissimo e biondo uomo, quando si mangia e si beve con lui, si mangia e si beve bene, e allora siccome vi ho scritto spesso di Favara - e 'sti cazzi, aggiungerei - oggi vi scrivo directly from Porto Empedocle: beaches, fishes and sun everyday. Come da buona didascalia tipica da tourism social media, in inglish plis, anche se presso comune agrigentino.
Di questi due fratelli Ravanà però vi devo dire due cose: la prima è che se sono bravi, bravoni, e la seconda è che io non mangio pesce, però - da loro - lo mangio. Tipo ieri sera che ho mangiato questa cosa che, ecco, è difficile da descrivere bene bene a parole ma io ci provo: caponata con pesce spada a tocchetti passato in una panatura lieve ma corposa. Un mix di consistenze e sapori che ti chiamano Sicilia in tutte le lingue del mondo. Ora io non scrivo di cucina e neppure so fare di quei giochetti da menù di ristorante che scrivono brodino di pollo in francese e te lo fanno sembrare una cosa prelibata e fighissima, ma sempre brodino di pollo è. Non ce la so. Vi posso dire le cose come sono, e questa storia della caponata col pesce spada, ve lo giuro, ha un perchè grande come l'Empire State Building.
Ovviamente, da brava mangiatrice di carne, ho chiesto la carne e Alessandro m'ha fatto il filetto di manzo con crema di formaggi e miele. Roba che ciao donne è arrivato l'arrotino proprio e che l'orgasmo in confronto vi sembrerà un grattino sulla pianta del piede. Credo d'aver reso l'idea. Volevo scriverne in maniera un pochettino più seria, come meritano, ma siamo su Semilascinonvale che di serio non c'ha neppure il nome. Si meritano anche che io scriva del loro bel ristorante, che si chiama Salmoriglio e ha il mare della Scala dei Turchi affrescato dappertutto - poco suggestivo, fra l'altro, il mare della Scala dei Turchi - e un'architettura d'interni e d'esterni che fa solo da cornice ad un contenuto che definirlo eccellente è riduttivo. Si meritano anche che io scriva che si trova in via Roma a Porto Empedocle, proprio al centro, e no, non m'hanno pagato per scrivere di loro, hanno solo catturato la mia gola e la mia simpatia  - perchè sono anche simpatici, oltre che bravi - e se passate da 'ste parti vi ci porto, e mangio con voi, tanto ormai il mio dietologo ha strappato la laurea e s'è dato alla pastorizia intensiva.

Comunque, per concludere il Marina tour, visto che oggi vi scrivo directly from, come specificato poc'anzi non posso non scrivere del Paradiso dell'ipercaloria empedoclino. Un bakery di provincia che di provinciale non ha nulla: Cotti al Forno. Non sono per niente di parte quando gli attribuisco uno dei best coffee ever, essendo Gabriele colui il quale vi piazza la tazzina sotto i nasi addormentati delle sette del mattino sette giorni su sette. Qualche volte anche il pomeriggio. Immaginate un bancone, un bancone infinito, pieno di tutte le ricotte immaginabili inserite in tutti gli involucri di pan di spagna e sfoglia immaginabili, e poi pizze e calzoni fritti e prosciutti e formaggi filanti e pane, pane con le olive, pane col pomodoro, pane col pane, pane con tutto, e vini, pareti intere di vini, bianchi rossi prosecchi, calici bicchieri tazze e piatti. Che bellezza.
Eppure di questo posto la cosa che preferisco, dopo Gabriele s'intende e dopo la torta Tirabaci - è il signor Crapanzano, il Principale, ovvero chi ha tirato su tutto e l'ha fatto funzionare. Anche qui lo chiamerò così, perchè gli si addice e anche lui - come i Ravanà - è finito inevitabilmente nella cerchia delle persone che mi fanno simpatia. Perchè negli occhi c'ha il sogno. Ieri m'ha detto una frase, che in mezzo alle altre m'ha tirata dentro ad un mondo di possibilità infinite, m'ha detto: io ho coraggio, ci vuole coraggio. Che parola incredibile, coraggio. Ecco, io credo che se la vita m'ha insegnato una cosa, una sola, quella è di non odiare la sveglia al mattino, ora non dico amarla ch'è uno scazzo per tutti, ma quantomeno ringraziarla perchè mi sta mandando a lavoro puntuale e per darmi, col suo modo un po' facchino, un sacco di coraggio.

Quando vado a Porto Empedocle, che ormai m'ha adottata per metà del mio tempo, m'accoglie quest'odore tipico della portualità, con le voci e le consuetudini lente e sorridenti di un paese uguale al mio, con una strada grande al centro e infinite ramificazioni che si allungano su una spiaggia lunga e bianca. E poi m'accoglie, oltre all'amore, la condivisione del cibo buono, quello nostro, quello che le mamme fanno la domenica e s'alzano a soffriggere alle sette del mattino e non conoscono stanchezza. Oggi faccio un altro brindisi, dopo gli innumerevoli di ieri sera, a questi miei nuovi amici del mare, e li ringrazio per la fatica che mi raccontano servendomi un piatto carico di profumi e le storie incredibili di chi non molla, resta qui, e manda il nostro nome e le nostre mani in giro per il mondo. Forse rugose, forse troppo grandi, ma mani larghissime e piene di passione.
Con inquantificabile e sempre più raro coraggio.

domenica 9 marzo 2014

Don't call me shampeesta.

L'altra mattina sono arrivata al salone e come ogni mattina ho acceso lo stereo. Gesto automatico del pigiare un bottone e sintonizzare sulla frequenza di una radio favarese.
Dalle casse mi giunge la voce di uno speaker noto. Sento parlare di lui da quando sono piccola, l'ho ascoltato anche spesso, e ammetto che dentro di me ho nutrito per la sua figura una simpatia di quelle che si nutrono per i personaggi dei piccoli sobborghi cittadini che fanno qualcosa con passione e per questo si distinguono. Lui ha la passione della radio, credo.
Lo speaker è un caratterista, con una parlata inconfondibile che mi porta a scrivere un post del buongiorno su Facebook, ironico, un po' tagliente ma in fondo benevolo. Continuo comunque ad ascoltarlo.

Qualche giorno dopo mi scrive un messaggio di posta, comprensibilmente stizzito dal mio post di critica al suo modo di parlare, dicendomi a chiare lettere che io, proprio io, quoque io, che sono una shampista non potevo mica criticarlo. Non era accettabile che sempre io, la shampista, potessi esprimere un parere sulla voce in pubblica diffusione radiofonica di una persona. Ci ho riflettuto un po', poi ho risposto.
C'ha avuto ragione. Non eravamo amici, non ci conoscevamo, la pizza insieme non l'avevamo mangiata mai e quindi non fu un gesto elegantissimo da parte mia accostare il suo nome d'arte con un'inversione totale delle dentali e delle gutturali ulteriormente modificata dall'amplificazione del microfono. Mi sono scusata, ero ironica, ho detto. E' un giudizio personale, ho detto. Lo elimino, e l'ho fatto.

La cosa su cui davvero ho riflettuto per più di due secondi (e più di due ore) è stato il fatto che lui volesse, in qualche modo, colpire il mio orgoglio personale di donna non istruita - a suo immaginare - dotandomi del ruolo - che per altro non ricopro, ma è un dettaglio futile - di ragazza addetta agli shampi nell'azienda per la quale lavoro. Il mio orgoglio personale ne è uscito, com'è naturale, illeso. Avrei potuto spiegargli nel dettaglio che io sono visual merchandiser dell'azienda, che mi occupo di social media marketing, ho un blog con diecimila lettori al seguito - ed è un'occasione per ringraziarvi - e che proprio quel giorno ero reduce da un mio intervento presso la Facoltà di Economia di Catania, nell'ambito della convention un Vulcano di idee per parlare di Farm Cultural Park come pratica di rilancio economico e sociale per la città di Favara. Avrei potuto spiegargli che mia mamma e mio papà hanno faticato una vita, prima per farmi studiare al Liceo Classico e poi per mantenermi alla Facoltà di Lettere e per tante altre belle cose in giro per l'Italia e che grazie ai miei temi - sempre concessi con cortesia e gratuitamente - un quarto della generazione degli anni Novanta del mio paese s'è diplomata.
Avrei potuto aggiungere che ho presentato libri - non miei, ma di gente migliore di me - lavorato come giornalista in una nota tv locale per qualche mese, scritto per svariate testate giornalistiche on-line e che alla fine ho deciso di fare altro, ovvero la visual merchandiser di una parrucchieria, perchè è l'unico lavoro che mi paga tanto da potermi pagare le ultime tasse dell'università da sola, senza andare da papà a farmi fare i versamenti in banca. Ho fatto anche tanti altri lavori che con i miei studi non c'entrano nulla: la cameriera, la guardarobiera, la lavapiatti e la lavacessi, e tutti per lo stesso scopo: viaggiare, farmi una cultura, laurearmi. Potrei continuare ma diventerebbe un curriculum, o un'inutile attestazione di arroganza che voglio mantenere ben lungi da me, vanificando gli sforzi della mia famiglia, umile nucleo monoreddito. Era solo per dire le cose giuste, insomma.

E devo dire che tanto il mio orgoglio personale n'è uscito candido, che la cosa che in realtà mi ha lasciata di stucco è stato l'utilizzo dell'appellativo shampista quasi a voler automaticamente sminuire l'autorità della voce di una persona solo perchè la sua professione è occuparsi dei capelli delle persone. Ma quindi una donna o un uomo che fanno i capelli sono automaticamente ignoranti e non possono esprimere gusti personali? Ma quindi una donna o un uomo che hanno seguito una strada altra rispetto agli studi universitari sono da definirsi inferiori intellettualmente o per gusto estetico? Essere shampisti è ragione di mutezza dovuta e necessaria? Una shampista è competente solo di cute sensibile e phon e spazzola? No, non è così.
Lasciando stare che l'unica volta che ho provato a fare lo shampoo alla mia collega - invertendo i nostri ruoli - le ho messo due volte solo il balsamo e poi mi sono pure chiesta per mezz'ora perchè non facesse schiuma, lasciamo stare questo, dico, e pure se fosse? Pure se io fossi una shampista, dovrei in qualche modo vergognarmene?

L'epoca in cui viviamo mi pare che ci stia insegnando ampiamente che vivere e arrivare a fine mese è difficile, che un ragazzo di vent'anni che c'ha un sogno - il mio è di scrivere un libro - deve aggrapparsi con mani denti unghia e tutti gli oggetti a gancio che trova a sua disposizione, ad un futuro risicato e instabile. Io sono fortunata perchè i libri di letteratura latina posso acquistarli facendo un lavoro che è di mia competenza, ma se domani mi capitasse di dovervi lavare i capelli per arrivare ai confetti rossi, e anche dopo questi, per fare la spesa e aiutare i miei genitori, io lo farei. E lo farei anche piuttosto fiera.
Detto ciò, voglio sfatare il luogo comune secondo cui il parrucchiere è una figura priva d'istruzione. Magari qualche volta, magari spesso, magari non lo so, ma i luoghi comuni sono quello che sono. E' come quando dicono che le donne sono tutte troie. Mica è vero, le mamme non lo sono mai, ad esempio.

Me ne sono prese tante di definizioni da quando lavoro al salone, shampista è di sicuro quella che ho gradito di più, perchè penso alle mie amiche che lo fanno per davvero, e io le chiamo colleghe, e quando c'è pausa pranzo dividono materialmente il loro pane con me, e se ho scritto questo post è solo perchè credo che il lavoro sia una cosa sacra e nessun lavoratore mai dovrebbe essere definito solo per quello che fa.
C'è anche un cervello, c'è anche un cuore, c'è anche tutto il resto. Non chiamatemi shampista, ma solo perchè non so fare gli shampi. Mi so incazzare bene, e questo - purtroppo - non paga mai.
Ah, dimenticavo, ho condotto per cinque mesi un programma di letteratura a RadioLab Catania. Se mi vuoi invitare io ci sono, ciao.