E tu sei il numero:

martedì 4 novembre 2014

La vera storia dei miei biscotti Matteo Renzi.

Ogni donna ha un suo metodo per sconfiggere lo stress.
C'è chi ricorre alla palestra, all'alcolismo, alla promiscuità, alla scrittura e così via discorrendo con le più disparate attività che richiedano un contemporaneo impiego di facoltà manuali e mentali, che facciano dimenticare ciò che cerchiamo costantemente di scordare e cioè: lo scazzo.
Io ho scelto di fare i dolci, o meglio: imparare a fare i dolci. E come tutte le cose che si imparano, quindi che non si sanno già fare, i miei tentativi non hanno prodotto nient'altro che sgorbi più duri e neri della lava solida alle pendici dell'Etna. Non lo so perchè.

Due anni fa, quando vivevo ancora a Catania, co-conducevo un programma di letteratura alla radio. Un'esperienza abortiva, non per la radio, non per il programma, quanto per una totale e schietta antipatia con la conduttrice capo del programma. Reciproca, cose giuste. Una tale che alla fine decise di buttarmi fuori dicendomi papale papale che non ero cosa. Probabilmente non ero cosa per davvero, e le mie vocali aggriggendine arrivavano esageratamente dilatate al suo fine udire, O magari aveva ragione lei: non ero portata per la radio, per il lavoro in team e per accollarmi i suoi malumori.
Insomma, l'interrogativo me lo porto dentro ancora dopo due anni e passa, ma credo che non saprò mai cos'è che non le piacesse di me per davvero. Perchè racconto questa storia?
Dunque, una volta a settimana, la mia collega Federica ed io facevamo una diretta da una nota libreria in via Umberto. Bella, a due piani, e dalla balconata del piano superiore - ammobiliata con sedie e tavolini da caffè - mandavamo in onda le hit letterarie del momento, con tanto di interviste agli acquirenti di turno. La balconata, oltre che da sedie e tavolini da caffè, era - naturalmente - strapiena di scaffali di libri, e una sera da uno scaffale sentii il richiamo libidinoso di una scatolina di metallo stampata a colori. Pasticcini ripieni di marmellata, stelline burrose di Natale e praline di cioccolato ornavano il suo esterno metallico, mentre una pila di piccole ricette farciva il suo interno. 150 ricette per ogni occasione. Doveva essere mio, golosa come sono, i dolci li avrei mangiati perfino in cartaceo.

La scatolina è rimasta chiusa insieme ai miei ricordi di quel periodo, dentro il cassetto che raccoglie i rimasugli di sette traslochi. E adesso, che sono sotto col penultimo esame e la benedetta tesi, non poteva che essere tirata fuori a stregua d'una copertina di Linus. 150 piccole ricette tirate fuori in un pomeriggio di pioggia, et voilà, i miei primi biscotti allo schifo hanno visto la luce.
Il nome gli è stato attribuito da me stessa medesima, a causa dell'indefinibile sapore: aroma chiarissimo di fallimento, con retrogusto di disfatta e qualche scorza d'incapacità culinaria. Oggi, volevo chiaramente perdere un'ora prima di sedermi alla mia trista e fredda scrivania, e ho impastato da capo. Cose con cose, su cose, aggiunte a cose, sbattute e frullate con cose, per ottenere così un composto di cose d'inaudita bellezza. Una manciata di scaglie di cioccolato fondente ha contribuito a conferire un aspetto quantomeno credibile alla mia (non) opera dolciaria. I quaranta minuti ad attendere che quei cerchi bicolore assumessero le fattezze del biscotto, sono stati infiniti. In cucina, da sola, ho tenuto il naso appiccicato al vetro del forno per tutta la durata della cottura, al punto da prendere le reali sembianze di Rudolf, la renna di Babbo Natale. Un'esplosione d'odore, lapilli di fragranze e abbracci di colore hanno invaso la stanza, fino al momento del tin! finale del forno che ha decretato la fine del tanto sofferto tempo di cottura. Li tiro fuori, aspetto che si raffreddino e li stacco dalla teglia. Aspetto ancora e un altro po' ancora, assaggio il primo che mi capita a tiro, quello che sembra il migliore. Il responso è meno tragico delle altre volte, almeno oggi non mi sono scheggiata nessun incisivo e la pasta all'interno non era cruda e molle come alga da sushi.

Prestando attenzione però, a quello schieramento militare di pasticcini, trionfo di burro e zucchero fino all'obiettivo sdegno,  una cosa salta all'occhio; le gocce di cioccolato fondente gettati nell'impasto in fase di preparazione, sembrano ora tanti piccoli nei su visi tondeggianti e oltremodo sorridenti. Il segnale è chiaro, triste, e sembra volermi comunicare che nonostante tanta buona intenzione e un'apparente riuscita papillare, nei miei biscotti c'è ancora qualcosa che non va: somigliano a Matteo Renzi. E allora aguzzo quella manciata di decimi che signorina Miopia m'ha lasciato in comodato d'uso ed ecco, vedo bene, sono proprio lui, con la sua espressione molle molle, e fumando di calore mi promettono, dal basso della teglia imburrata, riforme e una vita migliore. Li ripongo in una scatola, li tappo col gran tappo Tupperware e ritorno ai miei libri.
Potevano essere dei buoni biscotti, e adesso valgono solo ottanta euro.

Nessun commento:

Posta un commento