E tu sei il numero:

sabato 19 novembre 2016

Granofino: work in progress e qualche curiosità

Cos'è Granofino?

O meglio cosa sarà. Un nuovo ristorante, che aprirà al pubblico a Dicembre. Si trova al Villaggio Mosè, frazione della Città dei Templi, a pochissimi metri dalla Valle (quasi abbracciato dalla Valle, in realtà) e situato in un punto di snodo commerciale di incredibile movimento.
Per il momento è scenario di operosità da parte dello staff che sta creando, letteralmente, il ristorante da zero: dal design all'esposizione del cibo, dal menù al singolo tavolo, ogni cosa vuole essere innovazione, qualità, colore e soprattutto ricerca di bellezza.

Cosa si mangerà?

Il nome stesso rivela già qualcosa rispetto agli elementi culinari che sono stati inseriti nel menù. Alla base di tutto c'è il grano (o per essere più precisi, i grani) dunque la pasta fresca, il pane prodotto in casa e la pizza a lunga lievitazione naturale sono sicuramente i punti fermi di Granofino. Ogni accompagnamento dei piatti sarà rigorosamente a km0, bio e realizzato pezzo per pezzo, uno ad uno, con infinito amore per il cliente. No al surgelato, no ai banchi del supermercato. I salumi, le carni e ogni condimento - comprese le salse - saranno risultato del lavoro dello chef e della sua crew di cucina, armata di coltello, padelle, friggitrici, forni e fornelli.

Oltre il cibo, cosa offre?

Un lounge bar che regalerà momenti di squisito relax prima di cena, con un aperitivo, e dopo cena con una vasta scelta di cocktail e amari. Una fornita cantina e una selezione di birre artigianali, andranno a nozze con i ricercati taglieri di Granofino. In qualsiasi momento della giornata, il personale di sala, di cucina e del bar, saranno pronti ad accogliervi per un pranzo succulento, un break veloce o un drink con gli amici dopo il lavoro. Per le cene poi, potrete fare le vostre richieste se avete un'occasione speciale o una serata da festeggiare: sapranno creare per voi un'esperienza che non resterà solo un ricordo, ma un momento da ripetere.

La pizza Granofino è frutto di una ricerca tesa a migliorare la qualità dell'impasto e dei condimenti, sempre. Quante volte vi è capitato di mangiare una pizza per poi digerirla il giorno dopo? Ecco. La lunga lievitazione, il naturale riposo dell'impasto, garantiranno come risultato una pizza soffice, friabile e da godere fino in fondo.
E poi la pasta prodotta live, la panificazione, l'hamburgeria gourmet e la produzione casearia siciliana, e non solo.

Ne vedrete delle belle. Anzi, ne assaggerete delle buone.

giovedì 17 novembre 2016

Il test e le donne: tutto quello che pensiamo e nessuno dice mai

Mezz'ora.

Mezz'ora seduta sulla tazza del cesso in attesa che arrivasse quella goccia di pipì. Lo stick in mano, col coperchio serrato. Se ci finisce un granello di polvere può essere che il risultato cambia, penso. Allora lo tengo in mano stretto, e lo fisso, cercando di settare il cervello su un flusso modesto di urina, ma che esca presto, se no questo coso scade. Come se avesse scadenza in dieci minuti, logico. Ho bevuto due litri d'acqua. Di solito, durante la mattinata scappo in bagno ogni mezz'ora, sono così, per fisiologia: una pisciarella, una vescica debole. Ma oggi niente, perchè. Apro il rubinetto e lascio scorrere l'acqua, metodo certificato 100% since 1989, e aspetto, fino a ridurre a zero le riserve idriche condominiali. Ma ancora lei non arriva. Come il ciclo, che sarebbe dovuto arrivare una settimana fa, e invece eccoci qui: con un test di gravidanza in mano, la testa che scoppia e due reni che non sembrano voler collaborare.

Ma sarà negativo figurati. E' sempre così.
Lo stress emotivo, la vita frenetica, la dieta e le ovaie che vanno in letargo: tipico. Sarà negativo e anche stavolta avrò speso dieci euro così, per essere più sicura.
Entro in farmacia. Dalla strada vedo l'insegna verde lampeggiante: che faccio, mi fermo o no? Ma sì dai, scendo e lo compro. No cazzo, è pieno. Ma chi se ne frega, sto serena, vado e lo chiedo, ad alta voce, in mezzo alla gente, sono una donna no? Aspetta no, sono struccata, sembro una diciottenne quando non mi trucco - torno in macchina a mettermi il rossetto - no, dai avvicinati e chiedilo, anche le adolescenti hanno diritto a sapere se aspettano un bambino oppure no. Però imposta la voce, fai capire che sei grande, e comunque convivi col tuo compagno da un anno, ma che cazzo c'entra adesso, forza fai la persona seria e chiedi quel test. E lo faccio, a bassa voce, al farmacista che sta sistemando omogeneizzati nell'angolo, fa un caldo terribile qua dentro, sono dieci euro, pago con la carta, inserisca il PIN, arrivederci. Nessuno mi ha visto vero? No, perchè se mi hanno vista, domani tutta Agrigento saprà che...me ne fotto. Nel portaoggetti dell'auto, chiuso ermeticamente, avvolto nella carta e infilato nella plastica: il ventesimo test di gravidanza. Venti per dieci fa duecento, potevamo prendere due voli low cost per Parigi, con questi soldi. Coglioni.

La pipì sembra essere sul binario, e spinge un pochino più forte ad ogni secondo, fino a liberarsi del tutto. Ed è allora che piazzo lo stick sotto la fontana, avendo cura di non pisciarmi sulle mani che guarda oggi mi manca solo quello. Pochi secondi e inizia l'attesa dei tre minuti lunghi come tre ore.

Se è positivo, ok, ragioniamo.
Ho iniziato un nuovo lavoro, mi licenziano o entro in maternità? Perchè non leggo mai gli articoli che parlano di questi cazzo di diritti delle donne, perchè. Potrei mollare tutto e fare la mamma a tempo pieno. Eh no, però, ho studiato una vita per fermarmi così? Forse vorrei essere una mamma come la mia, sempre con me, presente. Dovremmo vivere con un solo stipendio, quello di Gabriele, non sarebbe facile. In pratica, non potrei più andare da Nadia a farmi le unghie ogni mese e non potrei ordinare lozioni per i capelli nei cataloghi Yves Rocher; neppure il colore da Andrea. Potrei comprare le tinture del supermercato, tanto adesso ci sono pure i kit per farsi lo shatush a casa. Però che schifo. E poi dovrei allattare, e con le tette che c'ho dovrei farlo sempre a casa, mica potrei uscirle in giro. Le baby sitter no, ma che sono pazza, le baby sitter seviziano i figli altrui. Sì, sono pazza. Perchè cazzo non spunta questa linea, aspetta guardiamo le istruzioni: una linea non incinta, due linee incinta. Cos'è quella una linea o un pelo? Sei miope, mettiti gli occhiali no?
Potrei chiedere un finanziamento in banca per giovani ragazze in attesa, col tasso fisso magari. Magari. Ho visto dei corredini orribili al centro commerciale, pieni di swarowski e merletti.
Sarò una madre di merda.
Non sono ancora riuscita a far capire a Zenzero che non si fa la pipì sui tappeti, come potrò essere credibile con un bambino umano? Come potrò convincerlo a non sbronzarsi di notte, e poi mettersi alla guida? Come potrò dirgli in maniera convincente che la cocaina non è così bella come dicono? E che le gonne corte, se è possibile, fra un paio di anni ancora.
Potrei riprendere a lavorare da casa, tutto sommato. E a Gabriele come lo dico? Aspetto che torna a casa o glielo scrivo su Whatsapp? Gli allego una foto del test?
E ai miei come lo dico? Facciamo una chiamata Skype con effetto sorpresa oppure anticipo per telefono e poi si festeggia su Skype?
E se non avessero alcuna voglia di festeggiare? Possono anche restarci male, in fondo.
Dovrei avere ancora tutti i miei vecchi jeans taglia 50 nell'armadio, potrei usare quelli.

Cinque minuti dopo, la linea è solo una. E' negativo.
Negativo e sì, anche per questo mese possiamo lavorare e produrre, e non riprenderò i dieci chili persi almeno per il momento. Cestiniamolo questo dubbio, rinunciamo a questo sogno che avrebbe potuto essere e non è stato. Purtroppo o per fortuna. Rimandiamolo a quando non sarebbe confusione ma gioia, sicurezza e non precarietà. Ma se solo fosse stato, se fosse stato positivo, avrei toccato il cielo, perchè la seconda linea è amore puro, amore immenso, amore che neanche immagino.
Non era il nostro momento, e forse è meglio così.

sabato 5 novembre 2016

Tre mesi dopo.

Molti di voi sono arrivati in questo blog per leggere di cibo.

Dopo una stagione alla Valle dei Templi, con i turisti tedeschi coi calzettoni di spugna bianca e le cinesi coi golfini di lana ad Agosto, ho concluso il 31 ottobre un progetto turistico che mi ha arricchito - ora parlo inglese livello Elton John - e impegnato per tutta l'estate. Non mi sono abbronzata; se non contiamo naturalmente quel contrasto visibilissimo sulle braccia, che quelli non proletari come me definiscono: abbronzatura da muratore.
Ma il compagno muratore non si offenderà, riderà di me.

Torniamo a noi.
Sono passati dei mesi dall'ultima volta che ho aperto questa pagina per scriverci qualcosa. Credo che nessuno debba scrivere per scrivere. Bisogna scrivere quando è utile, positivo: quando c'è un motivo. Cosa avrei potuto raccontarvi dei miei lunghi pomeriggi di ottobre alla Valle, in attesa degli ultimi scampoli di turismo, tra una pioggia e una folata di vento da mettersi le pietre in tasca? Niente. E allora non ho scritto. Fino ad oggi, che ho pensato a Luisa.

Luisa è una mia amica talmente bella (non solo fuori) e grintosa, che quando penso a lei, in automatico, mi attivo: devo fare qualcosa, non mi posso fermare. Perchè lei, con la sua passione per la moda, ha tirato su delle cose veramente fighe ad Agrigento: ve le racconterò.
Qualche giorno fa, Luisa m'ha detto: mi manca leggere il tuo blog. E adesso che mi è ritornata la voglia (e il tempo) posso raccontarvi delle cose, delle novità.

Nel frattempo, mi sono iscritta alla specialistica (la matricola Oliveri, again) e il mio invio pazzo di curriculum e i colloqui fatti durante tutta l'estate, mi hanno condotto ad un nuovo lavoro: sono manager di un ristorante.
Aprirà a dicembre e naturalmente ve ne parlerò fino allo sfinimento, dato che lo sfinimento s'impossesserà di me, una volta aperti.
Il cibo è tornato ad essere il mio lavoro e, davvero, mi sembra un miracolo.
In ogni caso, rieccoci: sono tornata e questo blog - fatta eccezione che per un attacco alieno o una guerra mondiale - non si autodistruggerà fra cinque secondi.

Spero.

domenica 28 agosto 2016

Farm Film Festival 2016: la prima edizione a Favara

La prima volta che ho parlato con Marco è stata questa.


Già da allora, da quella prima intervista, avevo capito che avrebbe portato, prima o poi, qualcosa di veramente innovativo nel nostro territorio. Da quel giorno, è passato un anno.
Un anno dopo, Marco è venuto a trovarmi a lavoro e mi ha detto:
Vale, mi sono deciso a mettere su una cosa che volevo fare da tempo: un festival cinematografico.
Nasce così il primo Farm Film Festival 2016, da un'idea del giovane regista video maker agrigentino Marco Gallo, e dal supporto di Andrea Bartoli e Florinda Saieva, mamma e papà di Farm Cultural Park.

Dal 1 al 4 settembre, a Favara, arriveranno i registi, i cast e i produttori dei quarantadue cortometraggi finalisti, e appartenenti a cinque categorie: Short Farm (Corti a tema libero),  Social\Creative ShortFarm (Corti a tema), Docu-Farm (Documentari), Farm Animation (Animazione), Farm Clip (Videoclip). Una giuria formata da giovani esperti di cinema e spettacolo decreterà il vincitore del primo Farm Film Festival, durata la serata conclusiva. Gero Miccichè, Beppe Manno, Leandro Picarella, Juraj Horniak e Marco Vaccaro: i nomi dei cinque giurati che, invitati dal direttore artistico del Festival, saranno chiamati a scegliere il film - a loro giudizio - migliore.

I Sette Cortili di Farm ancora una volta si confermano luogo di idee che prendono vita, e non ci pensano proprio a restare nella testa.
Tutti i giorni, a partire delle 18, intervisteremo i registi, i produttori e le crew che si muovono in sinergia per la realizzazione di ogni cortometraggio, e dalle 21 assisteremo alle proiezioni dei film, che si terranno nella parte più alta del grande Cortile Bentivegna.

La sigla del Festival è già virale, migliaia di visualizzazioni e condivisioni sui social. Vi invito a guardarla; la trovate all'interno della pagina Facebook dell'evento che vi consiglio di seguire con un like, per non perdere nessun dettaglio sui programmi delle quattro serate.

martedì 16 agosto 2016

Cronache di una convivenza: mese otto.

L'arrivo settimanale del nostro giorno libero vuol dire svegliarsi insieme, con calma, sorseggiare il caffè in soggiorno, con gli occhi ancora chiusi dal sonno, aprire le persiane e cercare Fox Animation su Sky. Il giorno libero vuol dire che possiamo far colazione senza dover correre a lavoro, e fare la doccia lentamente, godendoci l'acqua che gronda sulle nostre teste e le deterge a fondo, in una nuvola di schiuma bianca che profuma di pesca. Avere il giorno libero vuol dire baciarsi ovunque, per la casa, e non solo sull'uscio, come fosse un furto maleducato.
Ma quando abbiamo il giorno libero vuol dire che le nostre divise da lavoro vanno sulla poltrona, in camera da letto, a riposare pure loro. Quindi vuol dire anche che: io devo stirare. E sono cazzi.

Per una donna, andare a vivere col proprio uomo, significa anche misurarsi con gli standard qualitativi della donna che se n'è occupata fino ad allora: la mamma. E mia suocera, essendo cuoca superba e stiratrice universale, rappresenta uno standard, diciamo, compreso tra il 90 e il 100. Come potrei mai competere io, che fino a qualche mese fa non sapevo ancora impostare la centrifuga nella nostra lavatrice?

Capitava che tirassi fuori tutta la roba dall'oblò, tutta inzuppata d'acqua calda, e che dovessi usare due mani (e la forza di due braccia) per stendere due asciugamani, i quali iniziavano a gocciolare, prima lentamente poi sempre più forte, diventando una cascata e inondando il balconcino del buon Mohammed del primo piano. La seconda settimana me lo fece notare, incontrandomi per le scale: signora, tu non strizzi vestiti. 
Così ho dovuto studiarmi il manuale delle giovani marmotte casalinghe, per imparare il giro di manovella necessario a strizzare vestiti. Signora.

Il giorno libero di oggi ha implicato l'accensione del ferro da stiro, perchè le magliette già stirate si era comunque fottute nell'armadio e ad altezza del petto avevano più curve di Valeria Marini.
Mentre cercavo di abbatterle con la furia di calore possente firmata Arieteilgeniodellacasa, pensavo: mia suocera le avrebbe già eliminate con un colpo solo, e anche mia madre. Sarebbe già tutto bello liscio qui. E con rabbia affondavo la poppa della piastra rovente, attraversando i mari di pieghe in tempesta sulla polo bianca, che tanto amo vedergli addosso.
Comunque sia venuta fuori la piega, o calma o agitata come il mare di questi giorni, lui arriva e si tuffa con dolcezza nelle mie ansie di non essere mai troppo, di non fare mai abbastanza. E mi chiedo anche se sia stata la scelta giusta iscrivermi a questa specialistica, e anche se sono realmente portata per il mio nuovo lavoro. Mi chiedo mille cose, se le farò bene, se le sto già facendo bene. O almeno meglio di come stiro le polo e le camicie, con quelle sono proprio una frana.

Forse vivere insieme vuol dire proprio questo.
Stirare le pieghe nel cuore dell'altra persona, prendere i difetti e farli diventare favolosi, ridendoci sopra. Certo, ogni tanto è anche terapeutico far volare i piatti (quelli di Tiger, non quelli del servizio buono) e poi ritrovarsi a far pace su un angolo di lenzuolo fresco di bucato. Ci sono dei giorni, quelli non liberi, in cui ci si vede solo appena svegli e poi un attimo prima di dormire, la sera. Quelli sono i giorni in cui mancarsi, pur condividendo lo stesso tetto, sembra paradossale eppure è.
Chissà se questo anno ci porterà sulla strada giusta, quella in cui siamo noi a decidere quando essere liberi e quando no, questo sogno infinito e che prende corpo momentaneamente solo su qualche post-it e una cartella di Pinterest. So però di certo che abbiamo capito che amarsi non è così facile, nè da vicino nè da lontano, ma se ci si ama tanto non c'è lavoro che possa tenerci distanti o calzino sporco che possa smorzare la nostra passione. Si chiude la porta di casa a doppia mandata, si stacca la presa del ferro da stiro, si tirano fuori due birre gelate dal frigo e si guarda una puntata di Friends sul divano. La pila di vestiti può aspettare un'altra settimana.



venerdì 12 agosto 2016

YAB: l'electro-Ferragosto di Agrigento centro.

Il primo ferragosto in spiaggia l'ho fatto a dodici anni: a Cannatello, dalle otto di sera a mezzanotte. Mia madre ci aveva fatto i panini col prosciutto, comprato il tè al limone e la pizza a taglio. L'acqua naturale, gassata no. Scendemmo in spiaggia alle tre del pomeriggio e a mezzanotte spaccata, mio padre venne a prelevarmi munito di torcia, per salvarmi dagli ubriaconi molesti che subito dopo avrebbero popolato la spiaggia. Gli stessi che -  mi diceva - scioglievano poi la droga nei bicchieri e regalavano caramelle modificate al gusto di felicità. Tornai a casa felice comunque.

Non passarono molti anni da che gli ubriaconi molesti, in realtà, fossimo io e i miei amici. 

Per anni, a campeggiare con tende di fortuna recuperate il pomeriggio stesso dai garage dei cugini più grandi - dunque piene di polvere e resti coprolitici di dubbia provenienza - o comprate nell'ultimo negozio aperto fino alle nove pure a Ferragosto, solitamente quello del signor Stachanov di turno che vuole guadagnare tutto il guadagnabile, fino all'ultimo euro. Tutto si concludeva la mattina successiva, svariate bottiglie di vodka dopo (solitamente alla fragola e al melone, che erano quelle che piacevano a tutti), molta sabbia dentro le mutande (chissà quante colonie di scarafaggi riprodotte involontariamente dentro la nostra vagina) e qualche bambino procreato di troppo, venuto al mondo poi a Maggio, posato su uno scoglio da un gabbiano, come sostiene Fabio Concato. Poi sono arrivati i Ferragosti in famiglia, coi suoceri, col fidanzato, coi cani, coi colleghi, le grigliate in veranda, il vino buono, stop alla vodka scadente, il cocktail a bordo piscina, la carne angus e non la salsiccia in offerta all'Eurospin, e tutta questa roba qui.

E poi quest'anno.

E io quest'anno, non c'ho voglia di stressarmi, spostarmi chissà dove, tirarmi fuori le dune dal costume la mattina del quindici e soprattutto non c'ho voglia di mettermi in auto con due birre di troppo: adesso vivo ad Agrigento centro, la macchina è solo un triste ricordo. Ho solo voglia di divertirmi, con le persone che conosco, a pochi passi da casa mia e con la musica che più amo al mondo. Mi voglio scialare, va.
E allora che famo? Andiamo allo YAB! 

Sì, dice, Vale ma che è sto YAB? Ve lo faccio spiegare da Davide Lo Iacono, direttore artistico del primissimo Festival di musica elettronica al centro storico di Girgenti:


  • Ci si è sempre chiesto, osservando il decorso socio-culturale della nostra città, quali potessero essere le soluzioni più adeguate affinché si rigenerasse il desiderio di condivisione della bellezza, quale strumento in grado di ispirare alla propria comunità idee e risorse umane. YAB è fondamentalmente tutto questo: idee, sinergia, sviluppo della curiosità. Acronimo di you are beautiful, YAB sintetizza il bisogno di far pensare ai cittadini stessi quanto importante sia sentirsi "bellissimi" nell'abbracciare e accogliere idee capaci di rappresentare un piccolo passo in avanti, verso un nuovo concetto di visione di tutto ciò che circonda,che sia la città stessa,la gente,i propositi,le iniziative.un'idea sola rimane un'idea ma, se protetta dalla bellezza partecipativa della gente, diventa una realtà.
E così, grazie ad un team di giovani fortissimi, fra i quali voglio ricordare Federica Salvo, giovane e brillante professionista agrigentina (ma anche tanti altri, tutti in gambissima) avremo il primo Ferragosto al Centro di Agrigento. Dunque il 14 agosto, a partire dalle 21, piazza san Francesco ospiterà una serata di musica elettronica, arti visive, proiezioni, e una rotazione di dj pieni di talento, fra cui - oltre ai due organizzatori già citati - Santo, il quale  non solo ha dato vita alle migliori feste di compleanno e non della mia vita, ma girando il mondo con la sua musica è riuscito a portare nella sua terra una cultura electro ricercata e fine. Insomma, tutta roba di qualità allo YAB.
Siete tutti bellissimi, ci vediamo là.


giovedì 21 luglio 2016

Dunque: dov'eravamo rimasti?

Eravamo al punto in cui decidevo di non scrivere più una sola parola in questo blog, per convogliarle tutte, tutte quante, nella mia tesi. Non so fare più cose contemporaneamente, sono una femmina atipica.
Scelta produttiva, se consideriamo che in quindici giorni la verve perduta tornò a farsi viva: così mi sono laureata.

Ma è già passata una settimana, e questo spazio con le finestre chiuse da un paio di mesi, ha bisogno di aria: tapparelle su e si scrive di nuovo. Ferie finite. Proprio quando tutti mettono costumi e parei in valigia, io mi rimetto sotto per faticare, pure se nel frattempo non ho riposato mai.

Le tapparelle e gli infissi sono il mio orizzonte.
Dalla finestra della nostra camera da letto si vede un giardino a righe assolato, nel quale vorrei tuffarmi, distesa sul sofa bianco come i turisti ospiti del b&b di fronte, e prendere colore, colore, chè sono bianca come le lenzuola di mia madre, quelle del corredo, che non ho voluto portare con me, qui a casa nostra. Forse, non credendo di meritare tanto candore. Forse, considerando i colori un  alibi simpatico per fare meno attenzione bevendo il caffè a letto, o alle briciole di pane col tacchino a fette, mio pranzo abituale.

E adesso cosa voglio fare.
Senza punto interrogativo, così per cambiare tono e non continuare ad assillarmi con la domanda.
Una specialistica, un master, un lavoro, la comunicazione, il cinema, la cultura. Sì, ma svegliati: siamo ad Agrigento, davvero credi che questo funzionerà?
E via giù di curriculum, dai supermercati agli hotel, dalle casse ai parterre, dai teatri alle biglietterie. Credo perfino come capotreno, di aver inviato richiesta.
Streak mi avvisa con una notifica sul desktop che visualizzano. E non rispondono. Del resto me l'immagino proprio questi, che si vedono arrivare nell'inbox una mail con oggetto Candidatura Lavoro. Credo pensino: sì, ma chi te l'ha chiesto? Chi ti ha cercato? Chi ti ha cacato? Questa candidatura lavoro, per quale lavoro precisamente, che non vogliamo assumere nessuno?

Penso a mio padre, che fiero racconta ai suoi amici che la figlia - mica cazzi - s'è inventata un lavoro: fa la blogger, le piace. E che ne sai papà, mica gli pare un lavoro vero.

Solo a me capita di rileggere il mio curriculum venti volte al giorno e chiedermi: ho scritto qualche minchiata? Qualcosa che offende le mamme? Eppure mi  sembra così carino, pulito, pieno, un sacco di persone mi hanno capito quando gli ho spiegato Agrigento in inglese, embè?

Vado a farmi un caffè, idratarmi i capelli, li ho un po' crespi. No, l'acqua di mare non l'ho ancora vista, quest'anno.

venerdì 3 giugno 2016

Smartphone e socialità: parla la psicologa


di Florinda Bruccoleri 
Ho partecipato il 30 maggio al supermega concorso docenti 2016 sebbene sia sempre esistito nella mia mente pochissimo spazio dove potermi pensare come una maestra serenamente predisposta ad armonizzare classi di bambini concitati.
Sì, perché io credo di esserci nata con la passione per la Psicologia, con quell’indole semi-freudiana poco fanatica e con quell’innata attitudine all’ascolto interiore di me stessa e degli altri.
E per questo credo fermamente che non possa esistere lavoro, neppure il meglio retribuito, che mi faccia sentire viva e appassionata come quando siedo di fronte ai miei pazienti, alle loro storie e alle loro emozioni.
Ma torniamo a noi. Dicevo. Mi trovavo quel giorno in un paese per me sconosciuto nei pressi di Como, in una scuola del Nord, di quelle scuole dove respiri l’austerità, il dovere, l’attenzione minuziosa verso i suoi mille studenti. All’ingresso dell’Istituto un grande atrio che accoglieva in ordine alfabetico noi aspiranti concorrenti. Dietro un banchetto al centro due persone che avevano il compito di registrarti, visionare i documenti ed espropriarti il cellulare.
“Non ho neanche il tempo di avvisare mio marito”, ho pensato, “che se ne sta fuori da qui a scoprire il paesaggio insieme al nostro piccolo ometto di un anno e mezzo”.
“E vabbè, pazienza, lo intuirà”, rassicurandomi.
Consegnato il mio smartphone l’ho visto imbustare e sigillare come un oggetto proibito, come uno strumento nemico della conoscenza, del sapere, della preparazione e dell’onestà.
Uno scatolone adagiato all’angolo li accoglieva uno per uno, 21 per l’esattezza.
Erano le 8.10 e ci avvisavano che la prova non sarebbe iniziata prima delle 9.25. Un’ora e un
quarto circa senza cellulare, ho pensato. E per un attimo sono stata assalita dal dilemma atroce di come avrei potuto strutturare quel tempo “vuoto”.
Ho cominciato così a guardarmi intorno, come è mio solito fare; ad osservare con l’occhio clinico, frutto della mia deformazione professionale, le persone accanto a me. Le guardavo come si muovevano, come occupavano quel loro spazio e come investivano il loro tempo di attesa.
Da lì è nata questa mia riflessione.
C’era chi leggeva, chi guardava l’orologio, chi cercava timidamente di relazionarsi con qualcuno. Ho avuto la sensazione che fossimo lì, impreparati su come “incontrarci” in quello spazio così grande privi di quel potente mezzo di comunicazione che paradossalmente non ci fa comunicare più. Allora pian piano l’imbarazzo si è cominciato a sciogliere, qualcuno ha cominciato ad accorciare confini e distanze ed ha iniziato a parlare. Sono nati dialoghi interessanti, racconti su chi eravamo, su come mai ci trovavamo in quel luogo, quali emozioni ci attraversavano in quel momento che ci vedeva accomunati da un simile obiettivo.
Ho iniziato così a rilassarmi, a non sentire più la mancanza di quell’apparecchio tecnologico che ci avrebbe portati tutti un po’ fuori da lì, ancora più lontani da noi stessi e dagli altri se solo non ci fosse stato chiesto obbligatoriamente di privarcene.
Una simile situazione si è ripetuta alla fine della prova, quando ormai rilassati dopo l’arduo esame ci “rincontriamo” per scambiarci informazioni, sensazioni e pareri.
C’era un brusio tale in quella stanza che sapeva di vita, di presenze, di persone che si incontrano dal nulla e che creano delle dinamiche inattese e occasionali, ma piacevoli.
Si apre la porta, entra un tizio barbuto con uno scatolone tra le mani e dice: “Ecco i vostri cellulari”.
A seguirlo un altro uomo con un cravattino sbiadito con in mano un vassoio colmo di pizzette.
“Ecco, questo è un pensiero nostro per voi, in segno di ospitalità. Abbiamo pensato che ne avreste
avuto di bisogno dopo tutto questo tempo!”.

Eppure, stranamente (o forse non proprio così stranamente!) il bisogno primario e quasi fisiologico di ciascuno sembra essere stato quello di avvicinarsi a quella sorta di urna preziosa e recuperare la nostra memoria, le nostre virtuali necessità.
La fame poteva attendere.
Trascorsero pochi minuti e in quell’aula informatica calò un silenzio sovrumano, un silenzio quasi surreale se confrontato col vocio precedente. E vi assicuro che non era per via della pizza. Avevamo riconquistato i nostri cellulari e ci eravamo d’un tratto rimpossessati della nostra solitudine, del nostro spazio recintato. Tutti con le teste chinate non ci siamo guardati più, non ci siamo più visti l’un l’altro. Fino alle ultime parole: “potete andare, in bocca al lupo!”.
Ho pensato dentro di me che forse dovrebbero esistere più eventi nella nostra quotidianità che ci obblighino a separarci dai nostri cellulari. Forse così potremmo recuperare la voglia e la bellezza di incontrare l’altro che ci sta accanto e che spesso neanche vediamo. Preciso, io non sono assolutamente contro la tecnologia e le nuove forme sociali seppur virtuali di aggregazione e relazione e so bene che quando viviamo immersi in questa dimensione tutto ci sembra affascinante, piacevole, stimolante.
Ma vi assicuro che non esiste niente di più arricchente di una relazione vissuta con un amico, col fidanzato, col fratello o semplicemente con quella persona sconosciuta che incontrerete un giorno ad un concorso e che non rivedrete mai più. Statene certi che vi lascerà qualcosa di sé, se solo vi darete il permesso e la possibilità di incontrarla.

domenica 22 maggio 2016

Buon compleanno, Semilascinonvale!


Oggi voglio sovvertire le regole del relax settimanale.Di domenica, la gente va al mare, va a fare aperitivi, va a prendere caffè e a fare escursioni in posti fighi, e tu posti sul blog? Sei pazza?Sì, sono pazza. Ma di felicità.Scrivo un post di domenica e di pomeriggio tardi, perchè è l'unico momento della settimana in cui ho il tempo per respirare il mio letto, la mia casa, coccolare il mio cane e convincermi del fatto che, in fondo, non sono così stressata, non sto perdendo così tante ore di sonno e sì, la pelle del mio viso è proprio fresca, non c'è che dire, distesa.

Abbiamo fatto una festa per il terzo compleanno di Semilascinonvale.
Già tre anni? Tre anni di molte storie bellissime e qualcuna meno bella. Di cambiamenti, traslochi, progetti e sogni avverati. Perchè sarebbe ingiusto non dire, e sottolineare, che siamo tanto fortunati, ma anche tanto audaci. Se no, non potremmo.Settimane fa avevo lanciato una call; ho chiesto ai miei amici di Facebook qualche idea per celebrare quest'anniversario, coinvolgendo in qualche modo i lettori del blog. Di idee belle me ne hanno suggerite, eh! Ma faccio due lavori, non ho più la cistifellea e i super alcolici mi fanno ruttare per tre giorni consecutivi. (Ruttare non è parolaccia, l'ho cercato. E poi se si fa con la mano davanti, non è neppure maleducazione.)Così ho realizzato quella più fattibile: vi ho aperto le porte di casa mia, di domenica mattina, con una colazione rinforzata insieme alle mie amiche più care (e più pazienti, c'è da dirlo), e ho brindato alla vostra.
  Abbiamo indossato le t-shirt create per questo giorno speciale, in collaborazione con Lucio e Luca Stagnitto di Capolinea (leggerete sotto), due giovani imprenditori pronti a ridare luce ad un locale rimasto al buio per tanto, troppo tempo, con la caparbia e la simpatia che li caratterizza. Cos'ha fatto Semilascinonvale in questi tre anni per Valentina (me)? Ha creato delle connessioni con delle persone vicine, lontane o lontanissime, e ha fatto in modo che potessimo in qualche modo provare dell'affetto per le nostre vite, reciprocamente. Magari non sapete neanche se la notte russo (sì, russo), qual è il mio gusto di gelato preferito (varia a seconda dell'ondata ormonale), e se io e Gabriele ci sposeremo mai (è un modo carino per scoprirlo anche io), però ci siete. Pochi, tanti, non lo so. Non siete numeri, siete persone che hanno fatto di un blog, una pagina da leggere per rilassarsi, sorridere, piangere (alzino la mano quanti di voi esigono una fornitura di Kleenex da parte mia), e io devo ringraziarvi. Così ho realizzato delle t-shirt per l'occasione, ed è il mio regalo per voi: chiunque avesse il piacere di indossarne una, può contattarmi ed io gliela mando o gliela do, davanti ad un buon caffè chè conoscersi di persona è il miglior social network di sempre. (Gratuitamente certo, se no che regalo finto è?)
Queste (nella pagine Facebook Semilascinonvale Blog) sono alcune delle foto di questa mattina. Donata, Carla e Martina, oltre ad essere delle amiche fantastiche nella vita di tutti i giorni, sono state delle complici perfette e collaborative, senza le quali questo mio piccolo party non si sarebbe potuto organizzare, se non da solo. Ve la immaginate, una festa auto-organizzante? Bellu fussi.
Le persone che meritano tutta l'attenzione di questo post però sono: 


Lucio e Luca Stagnitto, due fratelli di Agrigento, giovani e noti per la loro intraprendenza, che hanno acquisito un locale ormai in disuso da anni e lo hanno reso uno splendido Risto Bar Pizzeria: Capolinea, si propone come il nuovo punto di sosta gastronomica nell'area industriale della città, e aprirà le porte al pubblico prestissimo. Vi darò i dettagli della festa d'apertura fra poche settimane. Lucio e Luca hanno realizzato con me le t-shirt che voglio regalarvi: hanno suggellato così un affetto e una stima reciproca che ci lega da tempo. Il loro risto-bar si trova in C.da San Michele ad Agrigento (di fronte l'Ospedale) e gli faccio un grosso in bocca al lupo per il lancio della nuova attività;


Antonella Morreale e tutta la sua famiglia, proprietari dell'Enoteca Vinarius di Favara, che mi hanno omaggiata di un Milazzo Metodo Classico mica da niente, per il brindisi di rito.Sono stata molto felice di ricevere un estratto della loro attività, da anni impegnata nella salvaguardia e nella diffusione della cultura enologica in Sicilia. La loro cantina è fornitissima e vi consiglio di andare; è proprio nella loro azienda che è nata, vent'anni fa, la mia passione per il vino. Si trovano in Corso Vittorio Veneto 388;

La famiglia Matina, in primis per avermi regalato Carla, mia futura testimone di nozze (ma a quanto abbiamo capito, pure di mezza Favara) e per la meravigliosa composizione floreale che vedrete in foto. V'immaginate, tutte le domeniche pranzare con dei fiori così al tavolo? Ecco, potete farlo, andando dal mitico signor Tano, lavoratore instancabile e sempre propositivo, una vera istituzione del settore fioreria in cittò, in via Bellini 5 a Favara;
Ringrazio tutti e vi auguro una vita piena di soddisfazioni come la mia, mai priva di fatica e sacrifici, ma sempre tutti largamente ripagati.


V








giovedì 19 maggio 2016

City of the Temples incontra i b&b - Domattina aperitivo Le Stoai


Dopo il successo e l'entusiasmo ricevuto durante la presentazione del progetto City of the Temples i partecipanti al circuito turistico, sono pronti a presentare scopi e finalità alle strutture ed attività ricettive di Agrigento e dintorni. Sabato 21 maggio 2016 alle ore 11, presso Le Stoai in via Cavaleri Magazzeni 1, è previsto un incontro che delineerà la fase di avvio del progetto, in Giugno. I partner, presenti e futuri, e i titolari delle strutture alberghiere, dei b&b, operatori turistici e servizi collegati (ma anche ristoranti, bar, locali), sono invitati a partecipare alla presentazione, cui seguirà un aperitivo. City of the Temples si propone come progetto riattivatore dell'economia turistica ad Agrigento, attraverso il network collaborativo ed elementi di innovazione nel settore del turismo e del marketing.
City of the Temples è il circuito che mette in rete gli operatori turistici di Agrigento, con i luoghi di maggiore interesse attrattivo del territorio. Tramite la collaborazione di più attività legate alla sfera turistica che abbraccia tutta la filiera, si potranno offrire ai clienti degli strumenti confortevoli e vantaggiosi per scoprire il territorio di Agrigento: la Valle dei Templi, e tutti i siti di interesse paesaggistico ed artistico nelle vicinanze. Guide turistiche, escursioni, spostamenti facili, totem informativi e digitali nei punti focali della città: questa è l'innovazione che City of the Temples porta ad Agrigento.



lunedì 9 maggio 2016

Calabrò Moda e l'open fashion day in Via Atenea: parte il contest fotografico

Colore, grinta e comodità.

Queste le tendenze per l'estate 2016 di Calabrò Moda, che lo scorso 6 maggio ha accolto l'inizio della stagione con un evento speciale: l'open fashion day. Le nuove collezioni, nello store di via Atenea 159, hanno vestito i clienti durante una giornata a camerini aperti, con la complicità e il supporto della designer ed esperta di moda Paola Merlino, Giada Calabrò perfetta padrona di casa e Gianfranco Gallo fotografo e motivatore per i clienti-modelli meno avvezzi alla camera. Ogni cliente ha avuto la possibilità di indossare uno dei mille abiti da cerimonia di Calabrò - naturalmente dei migliori brand della moda internazionale - e di ottenere il 50% di sconto sull'acquisto del suo abito preferito, grazie ad un contest su Facebook. Come? Le foto scattate da Gianfranco, saranno pubblicate sulla pagina del negozio; quella che ottiene più mi piace è la vincitrice. 


Cos'è successo? Ve lo racconto.

Prendete una blogger, vestitela di tutto punto e girate per  lo store alla ricerca della luce giusta e dello sfondo perfetto. Fatto? Bene, questa ero io, in compagnia di Giada e Paola, che hanno saputo consigliarmi l'outfit più adatto alle mie curve e alla mia personalità. Cosa, se non le stelle e i colori di Missoni, l'estro di una borsa Pomikaki tutta in giallo, e il comfort delle sneakers Premiata, perfette per tutte le occasioni (non solo quelle che richiedono il casual) ? Il cappottino con manica a tre quarti di Herno, a smorzare i toni e conferire morbidezza al look col suo bianco latte traforato sulle braccia, ha regalato al completo eleganza e il pass perfetto per un evento mondano. Quello della sera, proprio tra le sale di Calabrò: musica, bollicine e cadeau per gli ospiti e clienti, che hanno affollato lo store di Via Atenea fino a tarda serata, concedendosi shopping e un aperitivo prolungato e glamour al centro della città.

Giada Calabrò e la sua famiglia, sono il sinonimo del lusso e della  qualità in fatto di  moda nel nostro territorio: precursori di tendenze, anticipatori di stagioni, hanno da sempre portato i trend in città direttamente dalle passerelle più blasonate. L'imprenditorialità che contraddistingue i Calabrò è carica di determinazione e di impegno, studio costante e buon gusto nella scelta delle marche e delle linee da proporre alla clientela agrigentina. Non a caso, i brand sponsor della serata sono stati Pianurastudio  e Daniele Alessandrini: gli ospiti dell' Open Fashion Day sono stati omaggiati proprio con dei gadget offerti dalle due aziende, e con un ticket sconto del 10% per acquistare online sul sito www.calabromoda.it
Vi consiglio di visitarlo.


Il contest che decreterà la foto più bella, dunque la vincita del buono sconto del 50%, parte oggi sulla pagina Facebook di Calabrò Moda (che vi ho linkato all'inizio del post). Andate a dare un'occhiata, e votate con un like la vostra preferita.
Ringrazio Giada e Paola per avermi coinvolta  in un evento così divertente e affascinante, Gianfranco per la pazienza e ultimo ma non ultimo tutto lo staff di Calabrò: una squadra spettacolare che segue il cliente con amore dall'ingresso alla cassa, consigliandolo e aiutandolo a valorizzarsi al massimo.

Votate!



























martedì 3 maggio 2016

Lettere da Madrid - Seconda fermata

Lettere da Madrid, 2° fermata
24.04.16
“La passione non è cieca, è visionaria.” (Stendhal)

Questo post è un po’ particolare, e per più di una ragione. Innanzitutto, si è fatto attendere per oltre una settimana, ma il mio pc è rimasto spento e la mia mente disconnessa. Mi perdonerete, già lo so… ero in Sicilia! Anche alle povere stagiste spettano dei giorni di ferie, così ne ho approfittato per saltare su un volo Norwegian (compagnia aerea a me sconosciuta fino a sei mesi fa: prezzo low cost, qualità scandinava) e godermi il mio mare, il mio sole e 31° a metà aprile che neanche in paradiso!
Poi, è il secondo della serie, e le seconde volte sono sempre un po’ speciali. Le opere prime nascono dall’entusiasmo iniziale, ma niente e nessuno garantisce che l’autore perseveri nel suo intento. Io continuo, e ne sono felice: la scrittura è il mio giardino segreto, che mi cura più di quanto non sia curato da me.
Sulla mia agenda, piena di idee per il blog nate tra le stazioni di Delicias e Chamartín (o viceversa), avevo appuntato un altro argomento da affrontare, ma poi ho letto un articolo che ha scardinato la mia scaletta e che non posso fare a meno di condividere. Potete leggerlo qui.
Pippo Callipo è un imprenditore calabrese, e il suo nome è legato all’industria conserviera del tonno (e che tonno, aggiungo io!). Un uomo d’affari, ma prima di tutto un uomo onesto, a cui dobbiamo la definizione di “mafia con la penna”, ossia la burocrazia e la malapolitica che vessano e soffocano la sua Calabria e, più in generale, il nostro Sud, la nostra Italia. Per tutta risposta, la porta del suo resort ha ricevuto undici colpi di pistola: un regalo di quell’altra mafia che non legifera, ma che agisce senza fare troppi complimenti.
Ho letto l’intervista una volta, poi due, poi tre… ogni parola evocava in me sentimenti contrastanti, ma la rabbia dominava su tutti. Finché ho capito: non è la rabbia il senso di quelle parole, ma la speranza. Pippo Callipo non ci vuole tanto arrabbiati da mollare tutto e andarcene, ci vuole capaci di credere nella giustizia, nella legalità, nell’onestà. Ci vuole, soprattutto, capaci di credere nella nostra terra. Una frase, tra le tante, assume per me contorni di fuoco: “Ma questa è la mia terra e io resto in Calabria.”
Detto da me, che mi sono fatta la valigia e adesso scrivo da Madrid, può sembrare una provocazione bella e buona, lo riconosco. Ma se un giorno tornerò in Sicilia, e io lo so che tornerò, è perché non tutto è perduto e ci sono almeno un milione di ragioni per cui è alla mia isola che voglio dedicare ogni energia e ogni sacrificio che comporta la vita lontano da casa e dal mare (che per me, in fondo, sono la stessa cosa).
Io non voglio essere un cervello in fuga, se proprio mi si vuole appiccicare un’etichetta, allora sarò un cervello in trasferta, ecco, così ci siamo!
Non voglio essere l’ennesima laureata del Sud che “regala” sapere, competenze, abilità e soprattutto passione alla solita regione del Nord, al solito Paese estero. Se tutti i migliori andassimo via per non tornare mai più, chi rimarrebbe? Soltanto i mediocri! E a quel punto, davvero non ci sarebbe più spazio per il cambiamento, per l’innovazione… per la speranza, insomma! Non sarà mica questo ciò che vogliamo, no?
Io voglio che un giorno i miei genitori possano dire “mia figlia è partita, ha imparato ed è tornata per creare qualcosa di buono nella sua terra, tra la sua gente”… utopia? Forse, ma crederci è bello quasi quanto farlo davvero.
Ci vuole coraggio, sempre. Io ho imparato che se vedi il tuo obiettivo dritto davanti a te, il coraggio ti viene. Il mio slogan personale, quello che mi fa la ola tutte le volte che ne ho bisogno, me l’ha suggerito proprio questo blog, il mio rifugio, il mio giardino segreto: Semilascinonvale per me diventa Senontorninonvale!
Non si sfugge al canto delle Sirene… alla prossima fermata, ¡hasta luego!

PS: Questo post è dedicato a tutti i visionari appassionati con lo sguardo più lungo delle loro paure. Come Pippo Callipo, che probabilmente non mi leggerà mai ma a cui spero, un giorno, di poter stringere la mano e dire “Grazie”.

lunedì 2 maggio 2016

#beddumanciari - La leggenda di Colapesce nel piatto

Ieri Alessandro, dalla sua cucina a vista di Salmoriglio, mi ha detto: ma hai visto cosa ho messo nel menù? Una storia. Leggi, leggi.

Così ho aperto il menu, e fra i secondi ho trovato lei:
La cernia di Colapesce al forno, alle spezie orientali e crema di peperoni arrosto.

-
L'ho pensato leggendo la storia di Colapesce, così ho creato questo piatto. E' ricco di sapori e profumi, ed è incredibilmente estivo. Leggero e gustoso al contempo, c'è tutto il mare dentro.- e poi mi ha raccontato la storia, con dovizia di particolari.

Per condividerla con voi, riporterò qui la storia come l'ha trascritta Italo Calvino, scrittore e partigiano italiano.

A Messina c'era un bambino di nome Cola che stava mattina e sera nell'acqua e la povera madre lo chiamava:
- Cola, Cola! Vieni a terra .
Ma lui continuava a nuotare sempre più lontano. E a furia di chiamarlo alla mamma venne il torcibudella. Un giorno la madre perse la pazienza e gli disse:
- Cola che tu possa diventare un pesce!
Proprio in quel momento le porte del cielo erano aperte è così Cola diventò mezzo uomo e mezzo pesce. Poco dopo la madre vide che non tornava più e morì dal dolore.
Il re della Sicilia ordinò a tutti i marinai che, chi incontrava Colapesce gli doveva dire che il re gli doveva parlare. Un marinaio lo incontrò e gli disse:
- Cola, vai dal re che desidera parlarti .
Cola ubbidiente andò dal re e gli disse:
- Maestà! Lei mi voleva parlare? Io la ascolto.
- Cola, tu sei un bravo nuotatore fammi il giro completo di tutta la Sicilia e dopo mi racconterai quello che hai visto.
Dopo un giorno Cola tornò e disse al re:
- Vostra maestà! Sono tornato. Ho visto coralli e molte specie di pesci.
- Adesso, Cola, tu andrai di nuovo giù e mi dirai su cosa si appoggia la Sicilia. Dopo due giorni Cola tornò e disse al re:
- Vostra maestà! La Sicilia si appoggia solo su tre colonne: una rotta, una scheggiata e l'altra intera. Il re preoccupato disse a Cola:
- Cola vai un'altra volta giù e dimmi quanto è profondo il mare vicino al faro. Dopo due giorni Cola disse al re:
- Vostra maestà! Non ho visto niente perchè da uno scoglio sott'acqua esce del fumo. Il re insistendo gli disse:
- Cola, buttati dalla torre del faro. Cola si buttò. Quando tornò a galla andò dal re con il viso bianco bianco. Sembrava morto di paura. Disse al re:
- Vostra maestà! Ho visto un mostro lungo quanto un bastimento, e io per la paura mi sono nascosto dietro a una delle colonne dove si appoggia la Sicilia. Cola non voleva più andare in acqua per la paura. Allora il re buttò la corona in mare e si rivolse a Cola:
- Cola vai a prenderla.
Cola andò ma non tornò più. Il re preoccupato mandò i marinai a cercare Cola. I marinai videro Colapesce mantenere la Sicilia perché quella colonna che era incrinata si era rotta. Colapesce è ancora là, altrimenti la Sicilia potrebbe sprofondare nel mare.

lunedì 18 aprile 2016

Lettere da Madrid: prima fermata.


Lettere da Madrid, 1° fermata
10.04.16
“Cosa ti manca della Sicilia?” “U scrusciu du mari.” (Andrea Camilleri)

La gente è convinta che io sia una razionale, ma la vita mi entra forte dentro solo quando è l’istinto a decidere. C’è chi sente la testa, chi il cuore… io sento la pancia, anche stavolta. Valentina mi offre una rubrica in 10 secondi, io, complice l’effetto sorpresa, ce ne metto 50 ad accettare e beh, in un minuto nasce Lettere da Madrid.
Non aspettatevi una guida ai locali più cool e alle serate più trasgressive della Capitale: ho imparato che la grande città ti rubal’anima (un po’) e… il sonno (tanto), che vivere bene non è stare bene, che a volte ritornano paure che sembravano superate, e allora io scrivo!
Voglio condividere i pensieri (profondi, cinici, allegri, tristi, sarcastici, senza censure, senza limiti di lunghezza, insomma tutto un po’ a cazzo J) di una siciliana in trasferta ma che un giornotornerà, già lo so, perché “nelle città senza mare, chissà a cosa si rivolge la gente per ritrovare il proprio equilibrio.” (Banana Yoshimoto)
Sono arrivata in Spagna la mattina del 10 ottobre con un volo diretto Catania – Madrid, oggi “compio” sei mesi di vita madrileña: una valigia gialla, un alloggio prenotato per quattro giorni, già centinaia di curricula inviati e… lacrime, una valle di lacrime! Credo di aver pianto per tutte le 2,45 ore del volo, ma in fila al gate, ho incontrato il primo dei molti angeli che hanno incrociato il mio cammino: un signore gentile e barbuto, con in mano un libro di… Andrea Camilleri. Ora, non è forse questo un segno del destino? Io, sacerdotessa del culto al vate di Porto Empedocle, con una tesi magistrale dedicata a Montalbano, consolata da un lettore spagnolo del Commissario!
Madrid è una città accogliente ma, inevitabilmente, non è Sicilia. Una mia collega, pochi giorni fa, mi ha fatto notare che io non dico mai “in Italia”, ma sempre “in Sicilia”; il mio futuro lo immagino “in Sicilia”, altrimenti “in Italia” non torno… no, non sono una di quelli che appena passato lo Stretto, diventano nsignurinati. Sarà solo un’isola, ma per me è il mondo intero: il mio sogno è vivere in una casetta di fronte al mare (Punta Secca vi dice qualcosa?), con le tavole di astrattu e di cchiappi che asciugano al sole, le fette d’anguria, la sabbia sul balcone. Adesso che sono lontana, ho imparato ad apprezzare la caratteristica che accomuna tutti gli isolani del mondo: la lentezza. Ho riscoperto la poesia che sta dietro ai ritmi naturali, la mancanza di urgenza,  il “che fretta c’è?”. Sei mesi sono passati volando perché stare fuori casa 12 ore al giorno (14, quando vado in palestra) contrae la percezione temporale: mi chiedo sempre dove una donna di città trovi le energie per gestire marito, figli e casa dopo il lavoro, ma credo rimarrà un mistero insoluto.
Io, che ho sempre vissuto con la testa un po’ per aria, mi sono trasformata in una formichina laboriosa, stretta stretta sul treno delle 8,20 circa (qui gli orari dei mezzi sono variabili, non aspettatevi precisione tedesca), seduta al PC per 8 ore (e passa), poi di nuovo sul treno per tornare a casa e… si ricomincia fino al venerdì. Questa è la vita che mi sono scelta? Sì e no. Un’altra volta vi racconterò del momento in cui ho deciso di trasferirmi (posso darvi persino il giorno e il luogo), per adesso, so che il mio posto è qui. La consapevolezza che quest’esperienza mi ha già cambiata è la forza che mi sveglia ogni mattina: sono  arrivata una ragazzina, e Madrid mi ha fatto donna. Ho trovato un lavoro, una casa, una quotidianità che mi appartiene… poco a poco vi renderò partecipi di tante piccole cose che danno forma e sostanza alla mia nuova vita, ma da buona isolana, senza fretta. ;) ¡Hasta luego!

venerdì 8 aprile 2016

Cosa vorrei per mia figlia, quando avrò una figlia.

Cosa vorrei per mia figlia, quando avrò una figlia.
Vorrei, prima di tutto, che stesse bene, dentro e fuori dalla mia pancia, che avesse tutte le dita delle mani e dei piedi, e che - possibilmente - fosse naturalmente bionda, così da non doversi rovinare i capelli con le decolorazioni come ha fatto la mamma. Vorrei che amasse, prima sé stessa, poi un uomo, o una donna, quello che vorrà: m'interesserà solo che sia felice nel farlo.
Vorrei che il sesso non fosse un tabù, per noi: non le racconterò mai di un'ape viaggiatrice e di un fiore da impollinare, di una cicogna precisa come un corriere o di un cavolo piantato male; le dirò che suo padre ed io ci siamo amati, e molto, e dall'amore nascono sempre e solo cose belle, come lei.
Vorrei che nel guardarsi allo specchio, potesse vedere quant'è bella davvero, e che non nascesse mai in lei il dubbio che è sbagliata, orribile, enorme, troppo magra, obesa, con troppe curve, con troppe poche tette e il culo caduto. Vorrei che non si odiasse mai, non maledicesse la sua natura, e rispettasse il suo corpo come un tempio, anche nel donarlo. Le dirò che esiste l'amore, ma anche il piacere, e che non è peccato: è natura. Non dovrà imbarazzarsi: avere un corpo non dovrà essere la sua vergogna, ma la sua corazza verso l'asprezza del mondo, e la porta verso la dolcezza, la strada per il benessere di una vita.
Le chiederò di avere accortezza nelle scelte, perchè un errore verso sé stessi non si cancella facilmente, ma anche che l'unica cosa nella vita a cui non c'è rimedio è la morte: non servirà soffrire per ciò che non si può cambiare, dovrà imparare a rimanere sempre fedele alla sua natura, alle sue passioni, alle sue volontà e non essere mai il giudice di nessuno, se non della sua stessa coscienza.
Non si parla male degli altri, se non si è dei santi. Vero è anche che un santo, anche se ne avrebbe ben donde, non si metterebbe a sparlare di qualcuno: ognuno si senta di obbedire solo al suo specchio, alla sua solitudine, alle sue ombre.
Le insegnerò che un uomo può cambiare, ma è raro.
Le insegnerò che le altre donne sono tutte sue sorelle: anche le ex, quelle che verranno dopo di lei, e quelle che non stima. Dovrà farsi rispettare e nella stessa misura rispettare. Mai pensare che una donna se l'è cercata, una cattiveria, o meritato un sopruso.
Vorrei che non vivesse in un micro-cosmo di provincia in cui le madri e i padri insegnano ai figli che è divertente gioire delle miserie degli altri, delle vergogne, dei naturali imbarazzi: scaccolarsi al semaforo, rubare al supermercato, spogliarsi, fare l'amore, fare i pompini, fare le corna, non pagare le rate della macchina, non pagare gli impiegati, non pagare le bollette dell'acqua, uscire coi pantaloni vecchi e strappati, non avere soldi, fare le corna su Facebook, uscire le tette e il culo su Facebook, abbandonare i cani, messaggiare di nascosto dal marito, pagare le prostitute, buttare i profilattici per strada, maltrattare un immigrato, deridere il signore delle rose, non avere la borsa firmata, acquistare borse firmate finte per fare bella figura, buttare la spazzatura per terra, cacare per terra, pisciare per terra, morire per terra ed essere ricordati solo come carogne.
Vorrei che sapesse che tutti hanno qualcosa di cui si vergognano, quando sono soli a casa e si ricordano che gli puzza il culo, dunque nessuno avrà mai il diritto di farla star male, di ridicolizzarla, di metterla alla mercé della gogna pubblica, perchè tutti, tutti hanno qualcosa che gli lacera la coscienza, e fingono di fregarsene, ma la miseria è prerogativa dell'umanità, non è possibile debellarla.
Vorrei che mia figlia fosse sempre libera di mostrare ciò che è, e ridere fortissimo in faccia a chi la vorrebbe diversa, infedele alle sue passioni, finta in un mondo di finti.
Vorrei che fosse migliore di me.