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venerdì 1 novembre 2013

Se mi lasci non vale: un racconto su Favara

<...e se la trovi povera non per questo Itaca ti avrà deluso.>
Questo trovai scritto, su un muro di una casa, al ritorno in paese. C'era questa scritta nera su un cartello bianco rettangolare, dentro una cornice di travi bianche a delimitare uno spazio, in realtà aperto su tutti i lati, di giardino illuminato. Un minuscolo angolo di poesia, nel quale dal primo momento ho desiderato portarti.
L'aria è ferma stasera, mossa solo da un fischio, un sibilato di vento che mi passa fra le gambe e fa tremare la balza centrale della mia gonna rossa. Non si sta male.
L'autunno da queste parti non è freddo, poche foglie lastricano il pavimento nero della piazza, solcato dalle luci circolari che ne disegnano tutto il perimetro. Alberi, panchine, da sempre la tarda età che ivi staziona, dipendenti comunali e bambini che giocano a pallone. Qualcuno ha la maglia dell'Inter, attrae la mia spontanea simpatia calcistica e umana; gli interisti è bene che si vogliano del bene, almeno tra di loro.

Un gruppo di uomini chiacchiera ad alta voce al centro della piazza; qualcuno ha la cravatta.
Li riconosco, qualcuno lo saluto. Ricambiano con un gesto della mano e un sorriso. Un sorriso.

Non so cosa mi abbia spinto a tornare qua. Credo il bisogno di calore, calore di casa.
Mi hanno detto che la casa è dove si trova il tuo cuore, e il mio cuore è esattamente dove ha battuto fuori dal ventre materno, i primi giorni, poi sulla panchina dove due labbra l'hanno fatto tremare, ed è ancora qui, dove cammino sconosciuta tra volti sconosciuti, e nessuno pare ricordarsi di me.
Torno indietro alla prima elementare, alla mia compagna di banco. Non l'avevo mai vista prima, mi colpì il suo caschetto: tondo, liscio, marrone. La sua pettinatura perfetta, luminosa, aveva fatto ricadere la mia scelta su di lei: ti vuoi sedere con me? Lei, ovviamente disse sì, perchè avevo lo zaino di Sailor Moon, che poi scoprì essere il suo cartone preferito.
Pensai che non ci voleva niente a ritrovare degli amici, qui in paese. Alcuni, del resto, li avevo già. Altri erano rimasti un dolce ma diverso cammeo di vita catanese, un grumo d'affetto che presto si sarebbe esaurito negli impegni che di lì a poco avrei preso. Ma ancora non potevo saperlo.
Notai, su una stradina poco distante dalla piazza, un uomo. Un giovane ragazzo, con le spalle larghe, e un'ombra di barba a chiazzargli le gote, beveva una birra in compagnia d'altri suoi coetanei. In lui riconobbi il fratello minore di una mia compagna delle medie, ricordai il suo primo giorno d'asilo - di cui ero stata partecipe, per caso - e lo stomaco si strinse in un sentimento agrodolce di tempo passato e cambiamenti avvenuti e adolescenza perduta. La mia che andava via per lasciare spazio alla sua. Il mio corpo e i miei ricordi ch'erano ormai quelli di una donna, e lui che pensavo ancora bimbo coi Lego sul tappeto del salone, ch'era ormai uomo.

Salii in macchina, avevo scordato quanto stressante fosse guidare a Favara. Arrivai sotto casa con la maglia attaccata alla schiena sudata. Nessuno stop, nessuna freccia, nessun segnale stradale che fosse lì a fare il dovere per cui era nato. Nessuno che facesse quello che qualcuno gli aveva insegnato nelle tante autoscuole sparse per la città; tutto dimenticato il giorno dell'esame della patente. Ricordai com'è facile sentirsi in un autoscontro della Fiera d'Ottobre, quando si guida qua. Pensai alle castagne. Ai cartocci arrotolati e ripieni di castagne bollenti, e alla nebbia di cottura che copriva l'Itria e mi comunicava l'arrivo della Fiera, da bambina, e con lei: mele candite, giostre, il piumone nuovo. E qualcosa extra riuscivo sempre a procacciarla. Era sempre un gran momento, quello della Fiera. Chissà se la facevano ancora.

Le cose erano diverse, adesso. Per me e anche per lei, la città.
Eppure ero tornata, e la storia inizia esattamente da qui. Dall'autunno di un anno fa. Quando ancora non sapevo quanto l'avrei amata e quante soddisfazioni m'avrebbe dato, la mia città. Non sapevo neppure a chi appartenesse, la mia città. Adesso lo so, ed è quello che proverò a raccontare.

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