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venerdì 3 giugno 2016

Smartphone e socialità: parla la psicologa


di Florinda Bruccoleri 
Ho partecipato il 30 maggio al supermega concorso docenti 2016 sebbene sia sempre esistito nella mia mente pochissimo spazio dove potermi pensare come una maestra serenamente predisposta ad armonizzare classi di bambini concitati.
Sì, perché io credo di esserci nata con la passione per la Psicologia, con quell’indole semi-freudiana poco fanatica e con quell’innata attitudine all’ascolto interiore di me stessa e degli altri.
E per questo credo fermamente che non possa esistere lavoro, neppure il meglio retribuito, che mi faccia sentire viva e appassionata come quando siedo di fronte ai miei pazienti, alle loro storie e alle loro emozioni.
Ma torniamo a noi. Dicevo. Mi trovavo quel giorno in un paese per me sconosciuto nei pressi di Como, in una scuola del Nord, di quelle scuole dove respiri l’austerità, il dovere, l’attenzione minuziosa verso i suoi mille studenti. All’ingresso dell’Istituto un grande atrio che accoglieva in ordine alfabetico noi aspiranti concorrenti. Dietro un banchetto al centro due persone che avevano il compito di registrarti, visionare i documenti ed espropriarti il cellulare.
“Non ho neanche il tempo di avvisare mio marito”, ho pensato, “che se ne sta fuori da qui a scoprire il paesaggio insieme al nostro piccolo ometto di un anno e mezzo”.
“E vabbè, pazienza, lo intuirà”, rassicurandomi.
Consegnato il mio smartphone l’ho visto imbustare e sigillare come un oggetto proibito, come uno strumento nemico della conoscenza, del sapere, della preparazione e dell’onestà.
Uno scatolone adagiato all’angolo li accoglieva uno per uno, 21 per l’esattezza.
Erano le 8.10 e ci avvisavano che la prova non sarebbe iniziata prima delle 9.25. Un’ora e un
quarto circa senza cellulare, ho pensato. E per un attimo sono stata assalita dal dilemma atroce di come avrei potuto strutturare quel tempo “vuoto”.
Ho cominciato così a guardarmi intorno, come è mio solito fare; ad osservare con l’occhio clinico, frutto della mia deformazione professionale, le persone accanto a me. Le guardavo come si muovevano, come occupavano quel loro spazio e come investivano il loro tempo di attesa.
Da lì è nata questa mia riflessione.
C’era chi leggeva, chi guardava l’orologio, chi cercava timidamente di relazionarsi con qualcuno. Ho avuto la sensazione che fossimo lì, impreparati su come “incontrarci” in quello spazio così grande privi di quel potente mezzo di comunicazione che paradossalmente non ci fa comunicare più. Allora pian piano l’imbarazzo si è cominciato a sciogliere, qualcuno ha cominciato ad accorciare confini e distanze ed ha iniziato a parlare. Sono nati dialoghi interessanti, racconti su chi eravamo, su come mai ci trovavamo in quel luogo, quali emozioni ci attraversavano in quel momento che ci vedeva accomunati da un simile obiettivo.
Ho iniziato così a rilassarmi, a non sentire più la mancanza di quell’apparecchio tecnologico che ci avrebbe portati tutti un po’ fuori da lì, ancora più lontani da noi stessi e dagli altri se solo non ci fosse stato chiesto obbligatoriamente di privarcene.
Una simile situazione si è ripetuta alla fine della prova, quando ormai rilassati dopo l’arduo esame ci “rincontriamo” per scambiarci informazioni, sensazioni e pareri.
C’era un brusio tale in quella stanza che sapeva di vita, di presenze, di persone che si incontrano dal nulla e che creano delle dinamiche inattese e occasionali, ma piacevoli.
Si apre la porta, entra un tizio barbuto con uno scatolone tra le mani e dice: “Ecco i vostri cellulari”.
A seguirlo un altro uomo con un cravattino sbiadito con in mano un vassoio colmo di pizzette.
“Ecco, questo è un pensiero nostro per voi, in segno di ospitalità. Abbiamo pensato che ne avreste
avuto di bisogno dopo tutto questo tempo!”.

Eppure, stranamente (o forse non proprio così stranamente!) il bisogno primario e quasi fisiologico di ciascuno sembra essere stato quello di avvicinarsi a quella sorta di urna preziosa e recuperare la nostra memoria, le nostre virtuali necessità.
La fame poteva attendere.
Trascorsero pochi minuti e in quell’aula informatica calò un silenzio sovrumano, un silenzio quasi surreale se confrontato col vocio precedente. E vi assicuro che non era per via della pizza. Avevamo riconquistato i nostri cellulari e ci eravamo d’un tratto rimpossessati della nostra solitudine, del nostro spazio recintato. Tutti con le teste chinate non ci siamo guardati più, non ci siamo più visti l’un l’altro. Fino alle ultime parole: “potete andare, in bocca al lupo!”.
Ho pensato dentro di me che forse dovrebbero esistere più eventi nella nostra quotidianità che ci obblighino a separarci dai nostri cellulari. Forse così potremmo recuperare la voglia e la bellezza di incontrare l’altro che ci sta accanto e che spesso neanche vediamo. Preciso, io non sono assolutamente contro la tecnologia e le nuove forme sociali seppur virtuali di aggregazione e relazione e so bene che quando viviamo immersi in questa dimensione tutto ci sembra affascinante, piacevole, stimolante.
Ma vi assicuro che non esiste niente di più arricchente di una relazione vissuta con un amico, col fidanzato, col fratello o semplicemente con quella persona sconosciuta che incontrerete un giorno ad un concorso e che non rivedrete mai più. Statene certi che vi lascerà qualcosa di sé, se solo vi darete il permesso e la possibilità di incontrarla.