E tu sei il numero:

lunedì 21 settembre 2015

Al mio amico, il signor G.

Sarei dovuta ripartire oggi a riempire questa pagina bianca con qualcosa di nuovo, una bella notizia, un sorriso. Purtroppo non è così. E' un giorno triste, ma forse triste è poco. E' un giorno doloroso.
Così, per renderlo vagamente più sopportabile, scrivo. Scriverò di te, per averti con me ancora.

Quando un amico va via, dove non posso più riprenderlo, mi assillo per giorni, settimane, mesi che diventano anni, cercando di capire perchè il Capo - così mi capita di chiamare Dio, perchè lui comanda - abbia scelto proprio lui. E negli ultimi anni l'ho fatto spesso, chiedendogli in allegato la pazienza e la serenità per sopportare che la morte fa parte della vita stessa e, in fondo, chi se ne va, resta sempre con noi. Nei nostri cuori, come recita la formula più abusata del mondo.
Non è così. E' un assunto che, credo a causa dei miei pochi ventisei anni, non ho ancora maturato.
I miei amici andati via, è fuor d'ogni dubbio che nel mio cuore rimangano, ma io non posso far pace col pensiero di essere convinta di vederli in una macchina ferma al semaforo, agli scaffali di un supermercato, per strada, in un bar, e dovermi dire: no, ti sei sbagliata, non può essere lui. E' solo uno che gli somiglia. L'idea di non poter cercare il loro numero di cellulare sulla rubrica del telefono, e inviare loro un ciao, come stai? E' da tempo che non ti vedo. Di dover rinunciare alla loro presenza per sempre.
Niente.

La prima volta che ho visto Gabriele, la prima volta che gli ho parlato in realtà, eravamo alla Farm. Una notte di Capodanno, di festa, di brindisi e per noi anche di lavoro. Un lavoro divertente che faceva con eleganza, educazione, rispetto e quel sorriso, così forte e bello che lo precedeva, sua anticipazione, suo prolungamento, suo per sempre. Disegnato ad arte, mai spento. Incontrarlo era una profusione d'abbracci, baci, amore mio dobbiamo vederci più spesso, non sussurrati, urlati di gioia nel vedere l'amico fraterno e la sua fidanzata, cioè io.

Sono venti giorni che corro in lungo e in largo per il web, alla ricerca delle sue parole per me, delle promesse di metter su qualcosa di bello insieme, le nostre mail, gli auguri di compleanno, le parole sempre fedeli, totali, vere. La bellezza di un uomo che non troverà mai simili, paragonabili, su questa terra, che oggi non posso che definire maledetta. E benedetta, ad un tempo solo, per l'opportunità che ho avuto di condividere tempo, amore, idee con Gabriele. Il signor G, che migliaia di volte ho detto, sentito, chiamato, e che meglio di tutto incarna il suo essere infinitamente signore.

Sto fissando da venti minuti la serie di cifre collegata al suo nome, pensando di pigiare il tasto verde tondo. Finisco nel thread di messaggi. Non mi perdono i caffè non presi, gli incontri rinviati, per questa fretta di meschina che abbiamo di fare, produrre, lavorare, chiuderci nel nostro guscio di ci vedremo, oggi non posso, come molluschi asociali che preferiscono la sola voce al contatto delle mani e del corpo, degli abbracci. Come vorrei abbracciarti, amico mio. Facciamo dieci, cento, mille interviste, raccontarmi cosa vuoi fare nel futuro, rifammi quel Mojito e parliamo di innovazione, innoviamo, ti prego cambiamo tutto, riportiamo indietro il tempo e abbracciamoci più forte.

Ho sempre pensato che le parole fossero una grande vittoria, una bella terapia, un'efficace chiave per la felicità. Oggi le parole, le mie, mi appaiono come un grande fallimento, perchè hanno il limite di non poter essere usate per riscrivere una storia che non doveva finire così. All'inizio di questo post pensavo che avrei vomitato un chilo di rabbia verso quelle persone che fanno soldi con una paginetta di notizie mediocri, che non mi sento di definire giornalisti. In queste settimane non siete stati neppure capaci di scrivere correttamente il suo nome, di starvene al vostro posto, in religioso rispetto. Avete fatto come fate sempre: avete masturbato il vostro ego coi numeri, credo per smussare i picchi di frustrazione causati dalla mancanza di talento che vi accompagna dalla nascita. Avete incrementato il merchandising dei vostri strafalcioni di dubbio gusto e spessore, con una vita che c'era e non c'era, e che avete ridotto ad un click, ad un titolo, ad una frase banale, un luogo comune. Ma il mio amico non c'è più, e di occuparmi di voi adesso non ho le energie e neppure la voglia, ma qualcuno di voi sa bene come sono fatta, prima o poi non vi manderò a dire nulla, vi dirò ciò che meritate e che Gabriele, da signore qual era ed è, mi direbbe di non dire.

Buon viaggio fratello mio, ti amiamo e da oggi lavoreremo più forte anche per te. Sei la meraviglia.

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