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mercoledì 28 febbraio 2018

Favara: tutto ciò che si può amare e che sopravvive al brutto.

Torno a Favara due o tre volte a settimana, a casa mia.
Non ho ancora accettato il mio nuovo indirizzo di residenza, e non riesco a non fare un costante confronto tra il paese in cui risiedo e quello in cui sono nata e cresciuta. E al quale appartengo. Sul serio: non ho niente contro Porto Empedocle. E' un posto carino, raccolto, genuino. Un posto di mare.
Ma Favara, ragazzi, è immensa.
Dell'essere favarese indosso un'eredità caratteriale che viene fuori in certi contesti, quelli che richiedono pragmaticità e risolutezza. Forza d'animo.
Perché vivere a Favara?
Ci pensavo domenica scorsa, in giro in macchina con papà, percorrendo 'a Strata Nova. Quand'ero adolescente mi divertiva sentirmi chiedere, dagli amici di Agrigento: ma tu esci alla strada nuova?
Lo italianizzavano, per essere più sofisticati. Ma ci sono delle cose intraducibili: 'a Strata Nova, 'u Conzu, 'a Luna, i linticchieddri, 'u sparaceddru, 'u Casteddru, 'u capuliatu. La resa in italiano, per quanto possibile, ne ridurrebbe l'intensità comunicativa, ridicolizzandone perfino il suono. Ci siamo capiti: va bene così.
Una certa bonaria presunzione mi porta spesso a cadere nella trappola immodesta di elogiare, oltre ogni limite, la manualità dei Favaresi, decretandone la superiorità nei più svariati campi.
Il pane, ad esempio, è inarrivabile. E quando da queste parti mi capita di addentare un maccicuni o un chichireddru, vuol dire che sicuramente è arrivato un panettiere favarese. Chi altro saprebbe riprodurlo, e così bene?
Allora addento il pane e penso: questa è roba nostra. E ritorno ad una delle case di nonna Mela, in via Sicilia: poco distante, sulla via Roma, la Salumeria del Corso dispensava il miglior salame del circondario. Riempivamo un bocconcino e ci sedevamo sullo scalone dell'ingresso, in piena estate, con le voragini sulle ginocchia, regalo di qualche pedalata maldestra di troppo.
E i dolci, i dolci con la ricotta poi.
Ogni prelievo di sangue allo studio di analisi, sopra il Bar Patti, diventava una festa: il cornetto morbido, la Pasta Elena, il cannolo. Sbirciare nel laboratorio e vedere un padre e un figlio sempre all'opera: minuziosi, precisi, instancabili.
I gelati di Fabrizio, i 'cosi dunci di mennula da Oreste.
La Piazza, Piazza mia.
Quante cose potrei dire di lei, ma è un fatto intimo, mi commuove, e le parole vengono meno, per quante sono tante. Così come per Farm Cultural Park.
Facciamo che la Piazza e la Farm sono due donne: due femmine formose, bellissime e materne; la prima sicula in ogni sua architettura, l'altra invece è arrivata da lontano, un'americana bionda e bellissima, ma con l'accento favarese: uno slang talvolta incomprensibile, futuristico, amabile. Familiare.
Quanto bene ha portato, quanto bene che ci fa, quanto bene le vogliamo.
Da San Francesco è importante scegliere di non scendere con l'auto dalla strada di basule che porta dritti 'o Conzu.
Si vede tutta Favara da là, e la sera - addormentata in un abbraccio di lampioni gialli - pare quasi perfetta, coi visi delle case scorticati, e le vasche blu sui tetti. C'è anche, ancora, l'eternit, qualche volta. L'erba alta, le strade larghe, alcune incredibilmente strette, un dedalo indecifrabile, percorribile solo dagli avvezzi, le scorciatoie, i piani rialzati, 'a cammara e 'u dammusu, i magazzini arredati, le nonne fuori con le sedie e un fazzoletto di stoffa tra le minne per asciugare il sudore, le vesti nere e una collana d'oro con la foto del marito morto. Quand'è un figlio, puoi leggere nei loro occhi lo straniamento dal mondo, l'appassimento di ogni slancio vitale.
I panini delle camionette, pieni di patatine e salsaemmaionese - tutto unito - e le panelle, con la partannina fredda per sgroppare, e i caffè nei tavolini dei bar, che adesso si può chiedere anche un Marocchino se ci va, o una birra senza pensare che siamo buttane.
Le putìe nelle strade nascoste: 'zzia Fifì, 'u restu mu duna a licca licca. Solitamente erano quelli di Dracula, con la ciunga dentro. La ciunga: adattamento fonosintattico di chewing gum.
Siamo tutti cugini, e possiamo smettere di esserlo con una certa risibile facilità: l'amore e l'odio, a Favara, si alternano frenetici, roteando attorno a un concetto che un poco m'imbarazza, inteso per com'è: il rispetto. Un invito mancato, una visita di malattia non fatta, una telefonata dimenticata, compromettono irreversibilmente i legami. In taluni casi si ricorre all'intervento riparatore di 'u parrinu: come prete, o come altro. Può dipendere.
Di motivi per vivere a Favara, credetemi, ne ho così tanti che adesso stesso io scapperei, ma non si può.
Mio figlio però sarà per metà linticchieddru - sgamato e sveglio - e se gli andrà, potrà perfino iscriversi ad una scuola di architettura per bambini, la SOU, ed essere allievo dei miei amici. Amerà Farm, amerà la pizza che solo al mio paese sanno fare e quando s'incazzerà, mi renderà incredibilmente orgogliosa:
'aaaaaaaaaah mammaaaaaa, la finisci?
E io - per rispetto - la finirò.

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