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sabato 21 febbraio 2015

Perchè la guerra non mi fa paura.

Tempo fa, in uno dei miei luoghi del cuore, Farm Cultural Park, delle persone a me care costruirono una casetta. La casetta era fatta di materiali molto semplici. Il suo prospetto esterno era decorato con riquadri dalle tinte pastello, a tonalità graduali, affiancati a creare un arcobaleno di sfumature, pieno di vita. All'interno dell'unica stanza del micro-edificio, poltriva un grande coniglio di stoffa arancione, ripieno - credo - di polistirolo. I bambini potevano entrare nella casetta, giocare col coniglio e farsi scattare una foto da mamma e papà. Poche settimane dopo, sulle pareti interne della casetta comparvero delle scritte fatte a pennarello blu e a penna nera, perchè qualcuno aveva sentito la necessità di comunicare amori e saluti sul candore del muro della piccola casetta. Non un bambino, probabilmente degli adolescenti della stessa categoria di quelli che incidono cuori sulla corteccia degli alberi, o fanno i murales sulle mattonelle di ceramica dei bagni della scuola, e poi fanno occupazione perchè i bagni fanno schifo. I giorni passavano, e una mattina la casetta si svegliò con la porta sfondata. Un enorme buco sulla porta d'ingresso di quel nido fatto di materiali molto semplici, da persone a me care, così, senza motivo, credo solo per il gusto di farlo. Fui triste nel vedere la casetta deturpata e chiesi ad Andrea: ma perchè l'hanno fatto? 
In quei giorni circolava la notizia di una serie di opere di Banksy ch'erano state distrutte in qualche punto del mondo lontano da Favara. In un articolo, in parte condivisibile che non riesco più a trovare, si tirava in ballo la fruibilità dell'arte e come questa include anche il non rispetto dell'opera. In sintesi, anche gli atti di vandalismo, da parte di fruitori non troppo educati, fanno parte del processo di vita di un'opera, come pure della sua funzione comunicativa. Un'opera d'arte ha, come tutto, un inizio e una fine, e ciò che avviene in mezzo - stupri compresi - dev'essere accettato, in quanto definizione della sua stessa esistenza. Non condiviso, non digerito, ma accettato come storia.
Andrea mi rispose che se avevano distrutto la casetta, vuol dire che l'avevano vissuta e quindi aveva compiuto la sua missione comunicativa verso la gente. Avevamo tutto il diritto di rimanerci male, ma non era colpa nostra e aveva più senso adoperarsi per riparare il danno, invece di continuare a rattristarci per il gesto di quattro cretini. Gli leggevo l'incazzatura in faccia, ma non è il tipo da farsi mettere k.o. dalla rabbia. Si andò avanti.

Quest'episodio m'è tornato più volte alla memoria, e in molti casi - anche lontani dal mondo dell'arte - in cui ho dovuto metter da parte le delusioni, a favore delle ricostruzioni positive di uno o più elementi della mia vita. Però l'altroieri, quando al tg è passata la notizia che un gruppo di hooligans olandesi - ultrà del Feyenoord, squadra di calcio impegnata contro la Roma - ha invaso il centro storico della Capitale, devastando la celebre Barcaccia del Bernini, io sinceramente un poco i coglioni triturati li ho avuti. Vedere l'opera ridotta ad una piscina post pool-party, piena di bottiglie di vetro e zozzerie d'ogni forma e misura, m'ha spaccato il cuore in quattro, tanto che ancora - ch'è stata quasi del tutto ripristinata - non mi riesce di reincollarlo. E no, non l'accetto la tesi secondo cui l'Italiano in vacanza all'estero fa il vandalo in ogniddove che tanto non lo conosce nessuno, quindi ce lo meritiamo. Non l'accetto perchè l'Italiano in vacanza sa bene che appena sgarra - specie nei confronti dei patrimoni artistici del Paese - può pure prepararsi a restarci, in quel Paese, e dietro le sbarre. Ma a loro niente, anzi credo che qualcuno si sia preso una stretta di mano e un caffè gentilmente offerto da parte di chi avrebbe dovuto fermarli. E non l'ha fatto.

Comunque, al di là della rabbia che muove la distruzione di un pezzo di storia importante e del patriottismo naturale e sano che questo comporta, mi fa paura il fatto che in Italia si possa essere attaccati e sopraffatti, nel quotidiano delle nostre strade, da un gruppo di giovani sbrigliati carichi di furore etilico condiviso e lasciati correre liberi nel Paese in cui tutto è possibile, in cui se uccidi un ragazzo di 25 anni, all'uscita di una discoteca, prendendogli a calci la testa per una banale querelle, puoi cavartela con poco o niente; se lasci che una bambina appena nata e con problemi respiratori venga trasportata all'ospedale di una città lontana più di cento chilometri - da autisti che sconoscono il percorso - solo perchè non si trova un centimetro vicino per salvarle la vita, puoi cavartela con poco o niente; se sei un medico del pronto soccorso e ad un bambino di neppure due anni curi come influenza un attacco di meningite,  puoi cavartela con poco o niente; se puoi far frodi per miliardi di euro e nel frattempo essere ai vertici del Governo,  puoi cavartela con sicuramente niente. Se vivi in un Paese che garantisce un'anarchia, nuda di responsabilità o sensi di colpa o amore civico, puoi aspettarti che un gruppo non gestito di barbari possa arrivarti a centro città, e distruggerla, senza che nessuno paghi, se non la coscienza collettiva degli abitanti, che possono solo fare i conti con l'amarezza e andare avanti, come il tempo. Se nel posto in cui vivi, puoi aspettarti di dare alla luce una bambina e che ti sia strappata senza amore nè interesse, e puoi aspettarti di uscire un venerdì sera da casa con gli amici e non farne ritorno mai, per un parola detta male o per molto meno, te lo devi aspettare. In un Paese che non salvaguarda, non solo il patrimonio artistico, bellezza storica di borghi e città, ma neppure l'unica vera grande opera d'arte ch'è la vita umana, la guerra non può farmi paura. Perchè se arriva, ci trova già pronti a mollare. Già pronti a pagare per cattiverie fatte da altri, a nostre spese.

E non c'è ricostruzione positiva, non c'è fruibilità esterna, non c'è funzione comunicativa, se non quella del dolore.

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