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domenica 26 aprile 2015

Mio papà, io e l'arte.

Mio padre ed io, siamo sempre stati uniti da un amore comune, quello per l'arte.
Da piccola, ma proprio piccolissima, rubavo i suoi pennelli e scombinavo il loro ordine perfettamente allineato, pulito, risoluto, e li intingevo nel bicchiere d'acqua che teneva sempre vicino per sciacquarli. Invidiavo la sua pazienza, la mano ferma con cui delineava tratti sottili e grossi, e li riempiva, con la sua proverbiale calma.
Poteva volerci un mese, o due, per completare un dipinto, ma ne valeva sempre la pena. Un giorno smise di dipingere ma la sua arte è rimasta sulle nostre pareti.

Le pareti del nostro salotto sono gialle, giallo vivo non morto, e una cinquantina dei quadri di papà li riempiono a tappo, così che in certi punti non si distingue bene il colore dello sfondo, perchè rimangono solo brevi interstizi, fra una cornice e l'altra.

Rubavo anche le sue matite colorate, che non erano mai uguali a quelle che usavo io per la scuola, no, erano quelle costose, diceva lui per instillare in me un minimo di responsabilità verso gli oggetti acquistati coi soldi e non con i bacetti, come usavo fare io, con lui e mamma. I colori di papà potevo usarli solo se lui mi guardava e forgiarne la punta che consumavo quasi sempre dopo un secondo, solo col temperino di metallo che teneva in una custodia apposita. Ha sempre avuto una cura maniacale per gli strumenti della sua passione, con religioso rispetto per le gomme, le matite, e così per le squadre e i goniometri e il compasso. Ma più di tutto, papà aveva cura dei colori ad olio, quelli che i bambini non li possono usare, e a me restava un misero surrogato di colori a tempera, annacquati e che, non usandoli sapientemente, mi lasciavano tra le mani solo qualche foglietto di carta - strappato dal quaderno di matematica - bucherellato per effetto dell'acqua che lo scioglieva. Non era cosa per me e, fortunatamente, me ne resi presto conto. Io volevo scrivere, e più di tutto leggere, leggere e scrivere senza freno, scrivere e leggere tutte le parole del mondo, in un sol boccone, come fossero palline di cereali al cioccolato immerse in una tazza di latte. Tutte mie.
Così, dopo aver notato i miei tentativi di imparare a leggere usando le riviste Cioè di mia cugina preadolescente, pensò che non era il caso che io scoprissi a quattro anni e mezzo cosa fossero la candida vaginale e la mononucleosi, e mi comprò il primo vero libro nella mia vita: Alice attraverso lo specchio di Lewis Carroll. Gli effetti del quale sono ancora visibili nella mia personale psicopatologia della vita quotidiana. 

L'arte, però, l'ho amata. Molto di più da grande, quando ho avuto la possibilità di viaggiare, per conto mio o con lui. Lui che ha fatto due ore e mezzo di fila con me all'ingresso del Vittoriano, ad Agosto, e s'è abbronzato la pelata, per vedere Van Gogh, lui che ha attraversato tutta Roma per portarmi, a sorpresa, alla mostra di Tamara de Lempicka, solo perchè io su un volantino trovato nella clinica nella quale ho passato qualche tempo, gli avevo detto ch'era la mia preferita, lui che m'ha regalato un viaggio a Barcellona per scoprire Gaudi (e gli effetti della sangrìa coi churros alle cinque del mattino , ma lui non lo saprà mai) e sì, certe cose - bellissime e non richieste - può farle davvero solo un papà. Certo, anche un uomo innamorato, ma chi vuoi che ami più di un padre? Adesso che viviamo lontani, vorrei fargli vedere giornalmente i progressi della mia tesi, che sarebbe meglio definire regressi, e dirgli grazie per avermi regalato quel libro e per avermi aspettata all'uscita della Biblioteca Comunale di Favara per ore, mentre sceglievo - coi miei occhialetti tondi blu - il prossimo coacervo di polvere e pagine da trascinarmi a casa. Grazie per averci almeno provato a trasmettermi la sua passione, ed aver accettato che io l'avessi ugualmente, ma sotto una forma diversa: quella del fruitore.
 E grazie anche per avermi detto, dopo aver visto il mio (in)equivocabile ritratto di due albicocche rosa, sembianze chiarissime di due scroti appesi ad un ramoscello di percoco: va scrivi, ca è megliu.
Per fortuna l'ho ascoltato.

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