E tu sei il numero:

venerdì 28 agosto 2015

Trova le cose che ti fanno stare bene. Falle tutte.

Tre anni fa, vivevo nell'ultima casa in affitto a Catania, in via San Giuseppe al Duomo.
Era un appartamento all'ultimo piano, con due stanze grandissime e tutto il resto molto piccolo. Lo condividevo con Sara, la mia amica, la mia collega di Lettere. Per lei preparavo svariate torte di compleanno e feste senza ragione; nessuna mai è venuta buona, ma lei le mangiava lo stesso, per non farmi restare male. Una vera amica, Sara.

Quell'anno era lo stesso in cui molte cose cambiavano, ed era anche l'anno di Teoria della Letteratura, esame spauracchio storico per me e i miei colleghi. Lavoravo in radio, mi piaceva dire così, adesso so cosa vuol dire lavorare e non ci somiglia ppe niende. 
Dormivo poco e male, quell'anno. A causa di un amore inesistente (so adesso) che m'era sembrato infinito e dolorosissimo. Il classico amore straziante dei vent'anni che ti pare non finirà mai, fin quando non conosci quello vero. Non lo era per davvero ma, si sa, ingigantisco le cose, sono esagerata, io.
Dormivo poco e male, soprattutto perchè era da poco passata l'operazione.

Lo asportiamo, non farà nulla, vedrà.
Così mi ha detto il professore, guardandomi sereno. Puntava lo sguardo verso di me e poi buttava un occhio al suo Mac, dove scorrevamo le immagini digitali della mia ultima risonanza. La clinica dove mi accoglieva era pulita, elegante e al bar un caffè costava 2 euro. Ricordo solo questo. E i divani di pelle nera alla Hall, Mi sentivo tanto figa, perchè mi stavano curando a Roma, la Capitale, in un posto dove portavano i calciatori e la gente dello spettacolo. Ero una privilegiata. Alloggiavo in un hotel che faceva ad angolo con la clinica: il primo quattro stelle della mia vita, con la colazione a buffet, internazionale, e un barman che faceva la schiuma al cappuccino perfetta.
Non avevo ancora assaggiato quello di Gabriele.
Il mio primo viaggio sola con papà. Durante i nostri giorni liberi senza controlli mi portava in giro per Roma e ci dividevamo i supplì e la pizza fritta. Mi portava a tutte le mostre d'arte e faceva lunga file d'attesa con me, solo per regalarmi l'emozione di vedere i miei dipinti preferiti, dal vivo. E poi c'era il pit stop obbligatorio da Pompi, per il tiramisù alle fragole.
Questi viaggi non fanno così schifo, pensavo ogni volta, sull'aereo di ritorno.

Quando ho scoperto di avere il tumore avevo ventuno anni. Vivevo nella mia penultima casa di Catania, in via Manzoni. Dividevo casa con la mia migliore amica, Azzurra. Era un bilocale vecchissimo e pagavamo centosettantacinque euro al mese di affitto, a testa. Mai soldi furono spesi peggio per una casa, ch'era orribile, all'ultimo piano di un vecchio palazzone; quando chiamavano il ragazzo che ci portava fin su l'acqua, ci malediceva ogni volta. O mandava messaggi d'amore, a seconda del nostro outfit del giorno. Sotto esami ci malediceva sempre. Eppure è rimasta la casa più felice della mia vita universitaria, perchè tra Azzurra e me c'era - c'è - amore vero. Quello che sa rallentare e sa ripartire più forte di prima, più volte.
Sotto esami bevevamo tanto, troppo caffè. Ed una sera, che stavo preparando Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea, mi acchiappò un attacco di gastrite potente, troppo potente, tanto che alle quattro di notte ci toccò andare al Pronto Soccorso. Chiamammo un taxi e ci facemmo lasciare davanti quello del Garibaldi, dove mi fecero un paio d'analisi e una flebo per far passare il mal di pancia. Ci tennero tutta la notte in uno stanzino con sei o sette anziani quasi moribondi, sulle poltrone. Azzurra stava seduta accanto a me, e non si spostava nonostante il suo terrore per gli aghi che le faceva girare la testa, fino a quando, intorno alle cinque l'infermiera mi disse che il dottore di turno voleva parlarmi. C'era nell'aria un'insopportabile puzza di piscio che pizzicava il naso e la gola.

Abbiamo ricevuto i risultati del suo prelievo signorina, ma lo sa che non è normale? Ha dei problemi di salute?
No, dottore. A parte una gastritella da stress universitario come tutti, niente. Ogni tanto mi salta il ciclo, ma mi hanno detto che è sempre legato allo stress degli esami...
No no, signorina, dalle sue analisi io credo proprio che lei abbia un adenoma. Sa cos'è una adenoma?


No, non poteva avermi detto quella cosa, quella parola. E in quel modo. Azzurra ed io ci guardammo, con la faccia interrogativa di chi non sapeva cosa volesse dire, ma poteva immaginarlo.
Che stronzo questo dottore, ma è pazzo che ti fa spaventare così, alle cinque del mattino, una ragazza sola e lontana da casa! Ma non gli dare retta, non gli credere!, lei ci aveva provato così a darmi coraggio, quando tornammo a casa nostra, con un altro taxi alle sei, e sfinite crollammo sui nostri letti coi materassi vecchi e le lenzuola nuove. E' sua facoltà più bella, quella di far rientrare tutte le mie preoccupazioni esagerate, e le mie paranoie troppo grandi. Come ieri che le ho chiesto cosa pensasse di un'ex fidanzata, e lei m'ha detto: ma va, ma stai tranquilla, lui ti ama.
E io allora sono stata tranquilla. Lui mi ama.

Il dottore stronzo però aveva ragione. Una ragione che occupava dieci millimetri dentro la mia testa e si appoggiava sull'ipofisi, mandandomi in pappa everything. Un orologio rotto, una bussola che ha perso il Nord, un calendario coi fogli al contrario. Questo è l'effetto che quei dieci millimetri regalavano ogni giorno alla mia vita. Una ragione comunque benigna, curabile, di queste cose non si muore Valentì, vai serena.
Vai serena un cazzo.
Avrei voluto rispondere mille volte, ma non l'ho fatto mai. Tranne che con mia madre. A mia madre ho detto tutte le parolacce più brutte, quelle che avrei voluto dire al mio tumore, eppure le dicevo a lei, che era l'ultima persona al mondo a meritarle. Lei, che mi tenne la mano, fino all'ingresso della sala operatoria. Non una lacrima - chè mi sarei aspettata da lei un Eufrate di lacrime - non un segnale di preoccupazione, di paura. S'era tenuta tutto, per scoppiare poi subito dopo, quando le porte si chiusero e la sala mi risucchiò, attorniata da una nuvola di camici verdi. Che forte la mia mamma.

Quando riaprii gli occhi, ci vedevo. Ed era già un bel traguardo, date le previsioni che mi erano state sciorinate la sera prima, prima di farmi firmare il consenso per entrare nel mio cervello. E parlavo, ed era il top. Chiesi a mia madre di farmi il numero di Azzurra sul cellulare.
Sto bene, ce l'ho fatta!, le dissi col filo di voce più urlato di sempre. Era la mia amica, dovevo avvertirla subito che ci vedevo e parlavo e saremmo tornate presto a spaccarci di birra scarsa nella nostra casetta di Catania. Per qualche mese il cibo restò plastica per me. Nessun sapore, nessun odore. Lo spezzatino era PET, la pasta al sugo invece policarbonato. Nada de nada.
Per questo adesso, mi dà anche una certa soddisfazione fare anche la food blogger e mangiare tanto e bene, in giro per la Sicilia.

Insomma, un pomeriggio in radio, un anno dopo, mi ritrovai questa psicologa, psicosessuologa, che mi disse: ma vieni a trovarmi, parliamo un po', dimmi perchè non riesci a dormire. Per il  primo appuntamento le scrissi un messaggio su Whatsapp. Mi vergognavo a sentirla per telefono, era una piccola ammissione di debolezza, aver bisogno d'aiuto da parte di qualcuno. Ci vedemmo in tutto un paio di volte nel suo studio, e i miei incubi nei quali mi trapanavano il cervello da tutti i lati finirono presto nel cesso, insieme alle perdite di tempo inutili. M'insegnò a tenere un diario, o un promemoria a mente, che non ho mai smesso di usare da quel periodo in poi:
oggi cosa voglio fare per me e per la mia felicità?
Negli anni la risposta si è alternata. Sport, parrucchiere, una giornata di solitudine, fare l'amore, prendere un caffè con un'amica, dormire, dormire abbracciata a Gabriele, e così via. Un ritaglio di tempo felice che mi ha salvato da mille brutte giornate, che sommandosi avrebbero fatto un cataclisma. Il metodo funziona e non fallisce mai: sono molto felice.
Ecco perchè adesso, proprio mentre chiudo questo racconto che non ha per niente messo a frutto il consiglio di molti di voi - la sintesi - metterò su le cuffie e ballerò Kanye West, da sola, nella mia stanza, per due ore. Sì, come una pazza. Perchè mi diverte e perchè, insieme a tanta altra roba, mi permette di usare quella formula che tiro fuori ogni volta che mi qualcuno mi chiede: Ehi Vale, come stai?

Alla grande!


P.s. ho trovato il coraggio e la voglia di raccontare la mia esperienza solo grazie a Selene Maggistro. E' un modo per dire che sono con lei, come tante altre donne. FORZA BAMBOLA!

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